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La versione di Luciana Castellina: “Torniamo agli scioperi a rovescio, la sinistra si salva partecipando”. E sui diritti punge Meloni: “Poveretta”

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In tempi di «tonfi elettorali diffusi» a tutte le latitudini e le sfumature di sinistra, dalle Regionali in Italia alle Presidenziali americane, l’analisi della sconfitta di Luciana Castellina pare un riassunto di una vita di militanza: insieme lucidissima e impaziente. A 95 anni compiuti, la giornalista, scrittrice, ex parlamentare e coscienza critica della sinistra italiana sin dai giorni in cui fu radiata dal Pci, anno di grazia 1969, fa ancora pratica di «sinistra esercitata», la definisce lei. Attacca Giorgia Meloni sulla scivolata sui suoi diritti sindacali da premier («Poveretta»), scuote i protagonisti del campo progressista, da Giuseppe Conte («Diamogli atto ha portato il M5s a sinistra») a Elly Schlein («Non basta, per cambiare il partito»), stronca persino operazioni di «recupero della memoria» come il film di Andrea Segre su Enrico Berlinguer (“Ne hanno fatto un santino, sembra uno del Pd”).

Nei giorni scorsi era la giornalista in Emilia Romagna, a fare incontri in vista delle elezioni di metà mese, oggi è a Genova per la proiezione del film “16 mm alla rivoluzione”, ultimo viaggio nella storia del Partito Comunista Italiano con le immagini girate dai grandi registi del nostro cinema, da Ettore Scola e Gillo Pontecorvo fino a Giuseppe Bertolucci. «Allora c’era un partito forte perché dava l’idea di poter rappresentare un popolo, di poter davvero cambiare le cose nel Paese, un canale di comunicazione e partecipazione: – dice Castellina – Oggi questa forza non ce l’ha più nessuno, a sinistra, e bisogna ridare ai giovani la fiducia di poter cambiare le cose».

Perde per questo, la sinistra di oggi, ovunque la si guardi? È una questione di capacità di rappresentanza, di linguaggio, o di cosa di altro?

«La sinistra perde perché non è più capace di rappresentare il disagio della società. Un compito che non si ricopre con le chiacchiere in Parlamento, ma sul campo, tra i problemi. Costruendo soggettività, fiducia, riconsegnando ai cittadini potere decisionale e spinta alla partecipazione. Un processo lungo, logorato da tempo, che però è diventato urgente riaffrontare in un momento in cui la democrazia langue. Negli Stati Uniti come nel nostro Paese, dove il 60 per cento dei cittadini neanche vota più».

Cosa ci dice, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti? Per come è arrivata, e per quello che porterà con sé?

«È drammatico dirlo, ma Trump lo hanno votato neri, latinos, donne, le minoranze: i più deboli, quelli che non hanno la cultura per capire cosa dice e si fanno imbrogliare più facilmente. Quella di Trump è la vittoria dell’imbroglio, neanche più del solo populismo, come si diceva un tempo: Trump ha ubriacato gli americani, sospinto dall’amico Elon Musk e dalla forza dei nuovi media, delle fake news, dell’informazione distorta. Se ne accorgeranno quando vedranno i loro diritti di cittadini e lavoratori venire dopo tante altre cose».

A proposito di diritti. Cosa ne pensa, delle parole di Giorgia Meloni che si è raccontata “senza diritti sindacali”, e costretta a lavorare anche se malata?

«Cosa devo dirne, considerando le condizioni dei lavoratori di questo Paese. Poveretta».

La sconfitta di Kamala Harris e dei Democratici americani, invece, cosa insegna?

«Ci dice con chiarezza che il tema non è la sconfitta elettorale in sé, o di quanti voti si può vincere o perdere: i meccanismi della politica ormai sono falsificanti, corrispondono alla realtà anche fino a un certo punto, pensi anche alle ultime Regionali in Italia, a quanti pochi voti hanno deciso le elezioni in Liguria. Il punto vero è che oggi più che mai la democrazia come partecipazione va ripensata e ricostruita. Ecco il vero ruolo della sinistra, in questo momento, quale dovrebbe essere».

Quale?

«Aiutare la ricostruzione della partecipazione democratica reale. Deve riconquistare i giovani che non votano, riportarli a fare, a partecipare, a costruire attivamente: solo così ci si salva».

È una questione di spazi di inclusione, insomma, si finisce sempre lì. Finché la politica non darà alle persone la possibilità di sentirsi parte di qualcosa, c’è poca speranza ritorni a coinvolgerle.

«Mi fa ridere, vedere tutte le volte quanto il dibattito politico italiano si infiammi sulle cifre dei sondaggi mandati in onda tutte le settimane su la7. Orientamenti che rappresentano il 25 per cento degli italiani, che non dovrebbero fregare niente a nessuno. Ricostruire democrazia è un lavoro serio, passa dal fare in modo le persone ritrovino uno loro soggettività, dal dare loro la sensazione di contare qualcosa, di essere protagonisti. Dobbiamo riconquistare quel 60 per cento di giovani a cui delle elezioni non frega niente, e a ragione: perché la democrazia è logorata, le cose importanti non si decidono più in Parlamento ma sui mercati finanziari».

Di ripartire dal basso si riparla dopo ogni singola sconfitta, ma qualcuno a rappresentare gli elettori in Parlamento dovrà pur starci.

«Sa cosa facevamo un tempo, a Roma, nelle borgate? Lo sciopero a rovescio, si portava i lavoratori a prestare il loro lavoro gratuitamente per realizzare opere di pubblica utilità, come in passato nei latifondi quando ci si ribellava ai baroni occupando le loro terre incolte o mal coltivate per metterle a coltura. Ci si organizzava in forme di democrazia diretta, si portavano le persone a fare cose, a partecipare. Il lavoro di ricostruzione va fatto alla base, rimboccandosi le maniche sui territori, nei quartieri, lontano dal Parlamento, la cosa più lontana dalla sinistra esercitata».

Cosa ne pensa della fine travagliata del progetto del campo largo?

«Mi chiedo cosa c’entrino Renzi o Calenda se si vuole ricostruire una linea di sinistra. In Liguria, di cui si è tanto discusso proprio per la fine di questo benedetto campo largo, Andrea Orlando non ha mica perso perché Renzi si è sfilato dalla campagna elettorale. Anzi, questo passaggio penso gli abbia portato pure più voti. Anche un’alleanza di sinistra, però, non può che ripartire dalle cose da far fare alle persone. Lo diceva Gramsci, mica uno a caso, uno che ogni tanto sarebbe da rileggere».

Di chi sono le colpe maggiori, nel rapporto difficile tra le opposizioni, di Schlein o Conte?

«Su Conte vedo sempre in tanti esagerare con le critiche, si è preso di tutto, dal salviniano al trumpiano. Io tenderei invece a incoraggiarlo, e a ricordarci che si è trovato quasi per caso nelle mani una vasta area di protesta, anche rudimentale, selvaggia, che all’inizio mi faceva orrore, e in qualche modo l’ha portata a sinistra. A dire, fare, proporre le stesse cose per cui si combatte a sinistra».

E Schlein?

«Ho stima, per lei, ma non ci sarà mai un vero nuovo corso finché il partito non cambierà nella sostanza. Non bastano i suoi discorsi, che pure mi piacciono, e più di quelli che l’hanno preceduta, per cambiare un partito dove non c’è più una riflessione seria su sé stesso. Il Pd ha una storia, ha soprattutto un’eredità importante, ma il futuro? Trovatemi dei giovani che si sono iscritti al partito, in giro per l’Italia».

A proposito di eredità, l’ha visto il film di Segre e Germano su Enrico Berlinguer?

«Povero Berlinguer, l’hanno fatto passare per un pupazzetto liberale, sembra uno del Pd. Ne hanno fatto un santino, perché quelli vuole la gente, ma il film non aiuta a approfondire. Sono contenta si ritorni a parlare di certe cose, e non è neanche colpa di Segre, o di Germano, loro sono troppo giovani per sapere il motivo per cui a seguire Berlinguer ci andava tutta quella gente. E lo dice una che da Berlinguer è stata cacciata dal partito».

E perché, da Berlinguer ci andava tutta quella gente?

«Perché, tra le tante cose, per primo ha posto la questione ecologica, si è battuto per un’Europa autonoma dai blocchi mondiali, ha sostenuto il movimento pacifista. E più lucidamente di tutti ha posto il problema della crisi della democrazia. Quella stessa crisi che ci portiamo dietro oggi, e dobbiamo risolvere se vogliamo darci un futuro».

 

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