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L’impresentabile

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È la corsa a perdifiato di un leader isolato. Nella coalizione e nel suo partito. Di un ex Capitano che nella partita del 25 settembre si gioca tutto. Il Matteo Salvini che oggi gira in lungo e in largo il Paese alla ricerca del consenso perduto è lo specchio rovesciato del potente che nell’estate delle ambizioni smisurate, quella del 2019, lo portò dal Papeete verso Sud in un continuo bagno di folla, 1.500 selfie al giorno e il miraggio di fare il presidente del Consiglio dopo le elezioni in forza di sondaggi che – allora – lo davano vicino al 40 per cento. Un dato più di tre volte superiore rispetto alle stime attuali. La parola premier oggi resta soltanto nel nome del partito (“Lega per Salvini premier”) di cui qualche dirigente da tempo, in silenzio come nello stile del Carroccio, chiede la modifica. Il Papeete – luogo che quest’anno non a caso non ha voluto frequentare – è stata una maledizione per il leader: da allora tutto è andato giù, in una spirale depressiva cui non poco ha contribuito la pandemia, che gli ha tolto le piazze e l’humus per una politica populista e anti-europeista.

Le coccole ai No Vax e le incertezze sul Green Pass, il sostegno critico al governo Draghi hanno spaccato il partito – con l’ala istituzionale (Giorgetti, Zaia, Fedriga) in rotta – e hanno ridotto il bacino elettorale. La repentina caduta di Draghi ha aiutato il segretario del Carroccio, che con l’arma del potere di scelta sulle liste è riuscito a serrare i ranghi. Ma c’è un fuoco che cova sotto la cenere. Che arde soprattutto nelle valli padane, dove l’apertura al Sud della Lega non è mai stata gradita particolarmente. Specialmente nel Nordest, da tempo serpeggia il malcontento. Sia il governatore veneto Luca Zaia che quello friulano Massimiliano Fedriga non hanno partecipato alla formazione delle liste e potranno così allontanare da loro le responsabilità di un eventuale rovescio.

Matteo Salvini e Luca Zaia a Treviso ad un evento elettorale della Lega il 5 settembre 2022 

C’è una soglia psicologica sotto la quale Salvini rischia la leadership e anche l’autorevolezza per reclamare per se stesso il Viminale, obiettivo di riserva di questa campagna elettorale: già sotto il 12 per cento scatterebbe l’allarme rosso in quanti fra i big negli ultimi mesi hanno sopportato eccessi e gaffe del segretario, in nome anche del fatto che nessuno era disposto ad addossarsi la stessa mole di dedizione quotidiana, fisica e virtuale. Ma se la percentuale dovesse scendere al 10, allora non ci sarebbe alternativa a un’immediata verifica con l’obiettivo della sostituzione del segretario. Anche perché una Lega al 10 per cento tornerebbe sui livelli (almeno sulle migliori performance) di quella di Bossi, che però aveva il suo target elettorale solo in quattro o cinque regioni settentrionali.

Zaia, uno che con la sua lista alle Regionali del 2020 ha preso quattro volte i voti confluiti sul simbolo ufficiale della Lega, va ribadendo a chi gli sta vicino quanto afferma da tempo: “Se una forza politica perde identità è destinata a perdere consenso”. Il “Doge” veneto e Fedriga, non necessariamente in quest’ordine, sono i principali candidati alla successione in via Bellerio. Il dato che rimane è quello di un sostanziale isolamento di Salvini, condizione che permane da mesi e cui poco ha giovato la decisione – in coincidenza con il flop delle amministrative – di condividere con la segreteria federale i passi da compiere.

Salvini contestato in Polonia, il sindaco di Przemysl gli regala una maglietta con Putin

Il Capo del Carroccio, che dopo la disastrosa trasferta di  Przemysl è stato invitato dai maggiorenti del partito a prendersi una pausa e scendere dalla ribalta, ha scelto di appoggiarsi sempre più a figure esterne e viste con diffidenza dalla vecchia guardia, come il consulente per la politica estera Antonio Capuano (l’avvocato con cui Salvini aveva organizzato il fallito blitz a Mosca) o l’homo novus Giuseppe Valditara, docente di diritto ed ex senatore di Alleanza Nazionale che ha scritto il libro-manifesto È l’Italia che vogliamo e che ora ha un posto in lista nella Lega in Lombardia.

Matteo Salvini con Giuseppe Valditara e Alessandro Amadori a Milano alla presentazione del libro “È l’Italia che vogliamo” (ansa)

Una solitudine, quella del capo della Lega, avvertita anche dentro la coalizione di centrodestra, di cui ha perso le redini dopo lo strappo sul Quirinale che ha interrotto per tre mesi le comunicazioni con Giorgia Meloni. La postura nei confronti della guerra in Ucraina lo ha allontanato da Fratelli d’Italia e Forza Italia.

Meloni, in particolare, ha abbracciato senza remore la linea atlantista e anti-Putin, decisamente a favore delle sanzioni a Mosca, con l’obiettivo di accrescere la propria credibilità internazionale. Non è un caso se, al di là della concordia da ostentare in campagna elettorale, dei selfie di Messina e degli sketch di Cernobbio, non c’è argomento su cui la presidente di Fdi e Salvini siano d’accordo.

Flat tax, ricorso al deficit, l’idea di spostare i ministeri al Nord che mai Fratelli d’Italia potrebbe sposare. Oltre, naturalmente, alle sanzioni alla Russia. In silenzio, Meloni e il gruppo ristretto che in questi giorni l’accompagna lavorano per far vincere il centrodestra ma anche per rintuzzare il ruolo della Lega, vista come elemento di instabilità sul fronte estero.

Security First

“Il primo provvedimento che faremo, al governo, sarà ripristinare i decreti sicurezza”, annunciava ancora una volta ieri mattina l’ex ministro dell’Interno durante la tappa elettorale di Palermo. È il suo pallino.

Pescando a caso dalle duecento cartelle, suddivise in 41 temi, che compongono il programma elettorale di Matteo Salvini: portare l’iva a zero sui prodotti di prima necessità, piano straordinario di opere infrastrutturali da Nord a Sud “a partire dal ponte sullo Stretto”, ripristino dei decreti sicurezza “perché con Salvini al Viminale 11.471 sbarchi nel 2019, con Lamorgese 13.081 solo nel mese di luglio 2022”. E ancora: piano straordinario di assunzioni di almeno diecimila agenti, flat tax al 15 per cento “estesa a tutti”, riforma costituzionale per un presidenzialismo alla francese, diritto alla pensione di vecchiaia a 61 anni e almeno 20 anni di contributi… e così via, saltando di promessa in promessa, come se il bilancio dello Stato fosse la borsa senza fondo di Mary Poppins.

I seicentomila rimpatri mai fatti

Eppure, leggendo il papello dei propositi con cui chiede il voto agli italiani il prossimo 25 settembre si viene colti da una sensazione di déjà-vu. Salvini ha già avuto una possibilità di fare quel che andava promettendo. L’ha avuta da una posizione di potere e di forza politica, durante tutti i 461 giorni del governo Conte I: dal giugno 2018 al 5 settembre 2019 è stato ministro dell’Interno e leader del secondo partito della maggioranza, forte di un consenso che ha superato il 17 per cento e che i sondaggi davano in continuo rialzo. Gli elettori di Salvini hanno avuto la possibilità di testarne la serietà e di valutarne la capacità di tenere fede alla parola data. Com’è andata? Spoiler: non benissimo.

Per le politiche del 2018 Salvini comincia col botto. A fine del 2017, in visita al quartiere Sant’Elia di Cagliari, assicura che imprimerà ai rimpatri di chi non ha il permesso di soggiorno una sterzata mai vista prima. “L’impegno del centrodestra deve essere quello di fare centomila espulsioni all’anno, mezzo milione di clandestini riportati al loro paese in cinque anni: mezzo milione di persone che non scappano da nessuna guerra” (26 novembre 2017). È un’idea di ardua realizzazione: qualsiasi operazione di rimpatrio degli irregolari rintracciati sul territorio italiano dalle forze di polizia, infatti, non può prescindere da accordi bilaterali con i Paesi di provenienza. E non è una passeggiata convincere regimi, governi in guerra, Stati nel pieno del loro collasso economico a riprendersi i propri cittadini fuggiti. Soprattutto, molti di loro chiedono asilo e a meno di non voler calpestare il diritto internazionale non si possono semplicemente rimandare indietro con uno schiocco di dita. Ci sono leggi, prassi, diritti da rispettare e doveri di cui tener conto.

Noncurante della realtà dei fatti, nelle dichiarazioni di Salvini, comizio dopo comizio, la cifra sale addirittura a seicentomila e quel numero per volere del leader leghista viene scritto nel Contratto di governo con i 5 Stelle. È bene ripetere: seicentomila rimpatri, al ritmo di centomila all’anno.

Matteo Salvini a Lampedusa il 5 agosto 2022 in campagna elettorale  (foto di Antonio Masiello/Getty Images) 

L’assenteista del Viminale

Il primo giorno di giugno del 2018, dunque, Salvini giura nelle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella insieme con il premier e gli altri ministri del Conte I. Il tratto distintivo del suo mandato al Viminale sarà la sedia vuota alla scrivania che fu di Giolitti. Ministro assente, ministro nei ritagli di tempo, ministro volante perché spesso sale le scalette di aerei della Polizia per raggiungere i quattro angoli d’Italia dove ad attenderlo c’è sempre una festa della Lega a cui parlare, una cena a cui partecipare, un palco da cui proseguire la perenne campagna elettorale. Con grande disagio dei funzionari del ministero dell’Interno, costretti a mandare avanti l’articolata macchina della sicurezza nazionale col ministro contumace.

Un’inchiesta di Repubblica studia l’agenda di Salvini nei primi cinque mesi del 2019 e fa il conto delle sue presenze effettive al Viminale. Risulta in ufficio dalla mattina alla sera in appena 12 giorni, che diventano 17 se si aggiungono i cinque giorni in cui sparisce dai radar dei notisti politici e anche di quelli della “Bestia”, la fabbrica social leghista che ne documenta e rilancia gli appuntamenti pubblici. Negli stessi cinque mesi, tuttavia, il ministro Salvini si fa vedere a 211 eventi pubblici in giro per la penisola. Quando lascia la poltrona del Viminale, il risultato è questo: da giugno 2018 a giugno 2019 sono stati rimpatriati 7.289 immigrati, meno del governo Gentiloni (7.383) e neanche un decimo dei centomila all’anno con cui ha convinto gli elettori a votarlo. L’unico accordo bilaterale che Salvini è riuscito a siglare nella veste di ministro è con la Costa D’Avorio, e a tutt’oggi rimane privo di effetti reali.

I decreti della discordia

Da ministro definisce il suo più grande successo amministrativo l’emanazione dei decreti sicurezza, ben due, che hanno tra gli obiettivi il contrasto alle attività di salvataggio delle imbarcazioni della solidarietà. “L’Italia ha già chiuso i suoi porti, le navi straniere in Italia non toccheranno più terra” (30 giugno 2018).

Matteo Salvini a Palermo al processo Open Arms il 17 dicembre 2021 

In realtà continueranno ad attraccare, ma solo dopo inutili lungaggini per l’assegnazione del porto e ostracismi imposti dal ministro che porteranno all’apertura di diverse inchieste penali, tuttora in corso, e al prolungamento delle sofferenze dei naufraghi a bordo. Fino al caso della comandante della SeaWatch 3 Carola Rackete, prima arrestata per aver forzato il blocco marino ordinato dal ministro a largo di Lampedusa, poi scagionata da ogni accusa e liberata da giudice per le indagini preliminari di Agrigento con un provvedimento che fa a pezzi la norma di ispirazione sovranista. “Il decreto sicurezza bis non si può applicare alle azioni di salvataggio”, “Rackete ha adempiuto al dovere di salvare la vita dei naufraghi”, non ha commesso alcun reato di resistenza e violenza a nave da guerra. È solo la prima picconata ai decreti sicurezza salviniani. Un’altra, poderosa, sarà inferta dalla Corte di Cassazione nel 2019. Seguiranno i processi, ma quella è una pagina ancora tutta da scrivere.

Il bivio decisivo in Veneto

Mon ami“, il suono dolce della lingua francese spazzato via dalla durezza della conversione anagrammatica in dialetto veneto: “mona mi che te go creduo e anca votà“. Per chi non fosse pratico dello slang: scemo io che ti ho creduto e anche votato. È questa l’accoglienza che Matteo Salvini ha trovato al suo comizio nella tana del leone di San Marco. Il risultato dello strappo di cui si parla ormai da due anni tra la base veneta della Lega e la segreteria di via Bellerio, riassunto in due striscioni di benvenuto.

In Veneto ora ci sono almeno tre fronti che spingono per la scomunica di Salvini: quello interno, quello dell’elettorato storico e quello dell’imprenditoria. Salvini in quella regione ha scelto la linea dura affidando le redini della Lega veneta a tre uomini di fiducia che non hanno fatto altro che amplificare malcontento e sentimenti di opposizione.

Matteo Salvini impugna un fucile Beretta a Vicenza il 9 febbraio 2019 durante una fiera di settore (foto di Marco Di Lauro/Getty Images) 

Si tratta di Massimo Bitonci, ex sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze nel primo governo Conte, Andrea Ostellari, senatore e presidente della commissione Giustizia nonché grande oppositore del ddl Zan, e il giovane parlamentare Alberto Stefani, che ricopre anche il ruolo di commissario. La corrente di partito che ha ottenuto il successo senza precedenti del 76% alle regionali non si riconosce nelle scelte della segreteria federale che ha come suoi referenti sul territorio proprio i tre. Una Lega veneta sempre più divergente fra amministratori e parlamentari, fra partito dei territori e big, fra base e apparati. Il divorzio definitivo è stato infine lo strappo che ha generato la caduta del governo di Mario Draghi. L’impresa veneta aveva scelto Draghi, Giorgetti e Zaia per puntare a una ripresa dopo la pandemia.

Come se non bastasse, in tutto questo terreno disastrato si consuma la guerra fredda dell’autonomia. Sono già passati quasi cinque anni dal referendum consultivo del 22 ottobre del 2017 che, con un’affluenza del 57%, vide il 98% dei veneti votare per il sì. “Completare il percorso dell’autonomia è una questione di coerenza e di rispetto nei confronti dei cittadini”, si affanna a ripetere Zaia, il grande sostenitore di questa partita. Ma nonostante le occasioni avute al governo del Paese, sembra che Salvini non si sia mai speso tanto per far raggiungere questo risultato storico al collega di partito.

Matteo Salvini, vice premier e ministro dell’Interno, il 18 maggio 2019 a Milano (foto di Miguel Medina/AFP via Getty Images)  

Prima gli italiani

24 febbraio 2018, piazza del Duomo, Milano. Sul grande palco blu montato sul lato opposto dell’edificio dove sorgeva l’ufficio di Bettino Craxi spicca la scritta “Prima gli italiani”. È lo slogan mantra della Lega sovranista – scippato ai fascisti ed ex alleati di CasaPound. Quelle tre parole sono il marchio dell’adunata convocata dal “Capitano” nella sua Milano: serve a tirargli la volata nella corsa alla leadership del centrodestra. Ma è anche la risposta della Lega alla manifestazione antifascista a antirazzista del Pd e dell’Anpi (una reazione ai fatti di Macerata: il fascioleghista Luca Traini che spara su gruppi di immigrati per vendicare l’uccisione di Pamela Mastropietro) che va in scena lo stesso giorno a Roma.Piazza Duomo vestita di blu Trump – addio verde padano – è l’apoteosi dell’astuzia politica di Salvini: il leader delle ruspe contro i campi rom da un lato giura con il rosario in mano sul Vangelo e sulla Costituzione e manda baci alla Madonnina, dall’altro cita Pertini e addirittura Pasolini, che usa come arma contro i suoi avversari della sinistra. Perché lo fa? Semplice. Perché da almeno quattro anni – a far data dal 2014 – Salvini ha cacciato voti neri andando a braccetto con movimenti e gruppi di estrema destra. Con uno, CasaPound Italia, ci costruisce una vera alleanza territoriale.

Un sostenitore della Lega Nord accende un fumogeno verde durante il discorso di Matteo Salvini in piazza Duomo a Milano il 24 febbraio 2018 

Quel 24 febbraio ad applaudire Salvini in piazza Duomo ci sono anche i nuovi compagni di viaggio della Lega: i neofascisti milanesi di Lealtà Azione, cioè i violenti hammerskin che si ispirano a Degrelle e a Codreanu e sono guidati dai pregiudicati Stefano Del Miglio e Giacomo Pedrazzoli. Chissà se al Capitano hanno detto che quei due mazzieri – che dialogano con la Lega e portano acqua attraverso i pontieri Mario Borghezio e Massimiliano “Max” Bastoni – sono stati condannati in primo grado per un doppio tentato omicidio (accusa poi derubricata in lesioni gravi nella condanna definitiva).

Davanti al palco sul quale Salvini bacia il rosario sventolano bandiere che “parlano”. In mezzo ai drappi bianchi e blu di “Noi con Salvini” e al tricolore con la scritta “Salvini premier”, spunta qua e là la fiamma del Movimento nazionale per la Sovranità, fondato da tre vecchi protagonisti del Msi (Gianni Alemanno, presente in piazza, Francesco Storace e Domenico Menia). I “bravi ragazzi” di Lealtà Azione in questa campagna elettorale hanno sostenuto i candidati della Lega, in primis Max Bastoni, eletto al consiglio regionale della Lombardia, e già alle precedenti elezioni amministrative a Milano avevano eletto (sempre nelle liste della Lega) un loro esponente, Stefano Pavesi.

Matteo Salvini a Pontida il primo luglio 2018 (foto di Miguel Medina /AFP via Getty Images) 

Ancora, settembre 2017: dal palco di Pontida – finiti i tempi di “Roma ladrona” – Salvini manda un messaggio nemmeno troppo subliminale. “Se andiamo al governo cancelliamo la legge Mancino e la legge Fiano (che legge non è mai diventata, era solo un ddl, ndr) sulla ricostituzione del partito fascista: le idee non si processano…”. La Lega tornerà periodicamente sulla battaglia contro la legge Mancino, bestia nera di fascisti e razzisti dal 1993, facendone un tema (in prima linea nell’offensiva l’ex ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana).

Anche da ministro, Salvini continua la sua opa sul mondo dell’estrema destra italiana. Alla sua maniera. Cita slogan di Mussolini: “Io non mollo”, “tanti nemici tanto onore”, “chi si ferma è perduto”. Il post con “tanti nemici tanto onore” lo sgancia il giorno del genetliaco del duce (29 luglio). Siamo sempre nel 2018.

Il fascismo ha fatto anche cose buone

dice, salvo poi respingere, buttando in vacca, accuse, critiche e polemiche “pretestuose”. Lo showdown dell’estate del Papeete, con la richiesta – assai evocativa – di “pieni poteri” fatta gli italiani, è l’inizio del declino. Ma i segni del viaggio acrobatico e spregiudicato del leader che giocò a fare il fascista, strizzando l’occhio, restano.

La rete oltreconfine

Poi ci sono le alleanze europee. In primis coi post-fascisti di Rassemblement National di Marine Le Pen (ex Front National) e con AfD in Germania. Anno 2016: al Centro Milano Congressi va in scena la prima uscita pubblica dell’ENF (Europe of Nations and Freedom), l’eurogruppo parlamentare (otto partiti) che dichiara guerra a Bruxelles. Padrone di casa: Salvini. C’è la Le Pen, i due sono affiatatissimi. Parola d’ordine del summit: Europa degli Stati nazionali, cristiana e islamofoba; fine di Shengen; chiusura delle frontiere.

Matteo Salvini con Marine Le Pen, leader del Fronte nazionale francese, a Roma l’8 ottobre 2018.  Tom Van Grieken, leader del VlaamsBelang, partito di destra fiammingo, si rivolge al pubblico con un nostalgico “camerati!”. Gelo in sala? Affatto. Il popolo che fu di Bossi batte le mani. Salvini prova a correggere poco dopo con un “amici patrioti”. Già, i patrioti (poi ci salterà sopra Giorgia Meloni). La mutazione fascioleghista si era compiuta. Rassemblement National, FPÖ in Austria, AfD in Germania, Partito per la Libertà in Olanda, Partito nazionale slovacco, Diritto e Giustizia (PiS) in Polonia, Partito del popolo danese (Df), Alba Dorata in Grecia (poi smantellato dalla magistratura), Jobbik in Ungheria, i nazionalisti fiamminghi di N-Va in Belgio.

La Lega – con buona pace dei Giorgetti e degli Zaia – è ormai ascrivibile alla destra-destra europea. Salvini è, di fatto, il primo leader politico che risveglia “l’estrema destra”.

La sponda di Mosca

Se tra qualche mese Matteo Salvini andrà in qualche piazza, o in televisione, a dire: “Aspettiamo che ci chiedano scusa, l’inchiesta sul Metropol è stata archiviata”, sappiate che la parola giusta da utilizzare non è “scusa”. Ma “grazie”. Perché se quell’indagine, che prometteva di poter ristabilire un pezzo di verità sui rapporti tra la galassia della Lega e Mosca dovrà essere archiviata dalla procura di Milano a distanza di quasi quattro anni sarà appunto “grazie” a Vladimir Putin e al governo russo che, non collaborando con le indagini, non rispondendo alle rogatorie che la procura di Milano per due volte ha sottoposto loro, hanno di fatto reso impossibile ogni accertamento e approfondimento.

Matteo Salvini con il presidente russo Vladimir Putin in una immagine pubblicata sul suo profilo Twitter il 4 luglio 2019 

La questione è nota: i pm Giovanni Polizi e Cecilia Vassena hanno in piedi un’indagine per corruzione internazionale, aperta dopo la pubblicazione dell’audio che raccontava l’incontro avvenuto all’hotel Metropol di Mosca, avvenuto il 18 ottobre del 2018, tra il presidente dell’associazione Lombardia-Russia, il leghista ed ex portavoce di Matteo Salvini, Gianluca Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, l’ex banchiere Francesco Vannucci e tre russi collegati ad ambienti governativi. Oggetto della rogatoria sono proprio i tre cittadini stranieri: i pm milanesi vorrebbero sapere se possono essere in qualche modo considerati pubblici ufficiali. Questo perché l’oggetto della conversazione era, da un punto di vista investigativo, assai interessante. Sul tavolo c’era infatti una compravendita di petrolio – mai realizzata e portata avanti all’insaputa dell’Eni, che infatti è parte lesa nel procedimento – da 1,5 miliardi di dollari. Con una tangente del 9 per cento che doveva essere divisa tra le due parti: metà ai russi e metà ai leghisti, che in quel momento erano pronti ad affrontare la campagna elettorale delle elezioni europee del 2019.

La Lega ha sempre bollato tutto come “millanterie”. I pm hanno qualche dubbio in più. Non fosse altro perché nelle perquisizioni effettuate a Savoini, Meranda e Vannucci sono emersi alcuni elementi che, comunque andranno a finire le cose (verosimilmente con una richiesta di archiviazione entro la fine dell’anno), riusciranno a raccontare un paio di spaccati interessanti. Ci sono i collegamenti di Savoini con mondi imprenditoriali russi e il suo lavoro di intermediario nel corso degli anni con aziende italiane che facevano la spola con Mosca e soprattutto con il Donbass. E quello di Savoini, chiaramente, non era volontariato. Ma soprattutto ci sono “affari romani” degli altri protagonisti che rendono credibile quanto accaduto al Metropolitan e che, probabilmente, riusciranno anche a rivelare scenari paralleli. Una collaborazione di Mosca avrebbe però sicuramente aiutato. Anche perché – basta l’analisi da fonti aperte fatta dagli uomini del Nucleo di polizia economica e finanziaria di Milano per capirlo – è evidente che i protagonisti dell’incontro non erano dei passanti.

Al tavolo con Savonini, Meranda e Vannucci c’era Ilya Yakunin, dirigente e braccio destro di Vladimir Pligin, uno dei più stretti collaboratori dell’allora vice primo ministro Dimitry Kozak. C’era Yry Burundukov, uomo di fiducia di un magnate dell’energia, Konstantin Malofeev. E c’era Andrey Kharchenko, uomo dei servizi di sicurezza interni del governo di Putin. Una spia, insomma, che non si capisce a quale titolo fosse a quel tavolo se non si trattava di un incontro istituzionale. Resta la domanda: sono da considerarsi pubblici ufficiali? La questione non è tecnica, ma pratica: era quel discorso un tentativo di corruzione? Una risposta probabilmente non arriverà mai. Agli atti c’è però un altro particolare: della spedizione di quel viaggio faceva parte anche Matteo Salvini che, poche ore prima dell’incontro al Metropol, incontrò proprio Kozak. Lo fece nello studio di Pligin, l’amico di Yakunin. Uno di quelli del Metropol. Una coincidenza, certamente.

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