[ Leggi dalla fonte originale]
“È stato il vostro bravo ragazzo”, è la frase che il 18 novembre di un anno fa, nel giorno del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, sua sorella Elena rilanciò sui social. Assieme a un’altra: “Bruceremo tutto”. E poi, nei giorni successivi: “Io non starò mai zitta, non mi farete mai tacere”. L’eco di quelle parole è riecheggiata ieri, alla fine di una giornata che doveva essere di ricordo e soprattutto impegno, segnata invece dalle parole di un ministro che ha ridotto le riflessioni sul patriarcato a inutile “ideologia” e ha associato l’immigrazione alla violenza di genere.
“Le parole del ministro Valditara? Diciamo che ci sono dei valori condivisi e altri sui quali dovremo confrontarci, ecco”, è stato il commento a caldo di Gino Cecchettin, il papà di Giulia, che dal femminicidio della figlia ha avuto la forza di pensare l’impensabile: una Fondazione in nome della studentessa di Vigonovo, per aiutare altre ragazze e donne, per prevenire la violenza, per introdurre a scuola un’ora alla settimana di educazione all’affettività e per ribadire – come ha fatto – che “l’odio non porta a nulla, anzi: annichilisce noi stessi”, lui che Filippo Turetta, l’assassino reo confesso dell’ex compagna, lo ha ascoltato in tribunale per una mattinata intera durante il processo.
Ma dopo il videomessaggio del ministro un diluvio di parole ha per forza di cose scalfito il senso della giornata. E nel pomeriggio, pur senza citare il titolare dell’Istruzione né gli altri esponenti politici presenti all’iniziativa romana, Elena Cecchettin ha pubblicato questo messaggio su Instagram: “Forse, se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, si ascoltasse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno”.
Suo padre Gino, ha aggiunto, “ha raccolto i pezzi di due anni di dolore e ha messo insieme una cosa enorme. Per aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso. Oltre al depliant proposto (che già qua non commentiamo) cos’ha fatto in quest’anno il governo? Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e a creare qualcosa di buono per il futuro?”.
Il pensiero di Elena Cecchettin è tornato a un anno fa, quando “ho ricevuto la conferma che Giulia non sarebbe tornata a casa. Un anno difficile, di dolore, di ricordi, di lacrime. Ma soprattutto di lotta. Lotta per lei, che non c’è più. Oggi questa lotta prende anche la forma di un impegno sociale per poter iniziare un processo di cambiamento. Per tentare di impedire che nessun’altra debba ricevere quella chiamata. Che le nostre sorelle rimangano vive”.
Dai suoi figli, Gino Cecchettin ha sempre detto di aver imparato tantissimo. Grazie a Elena ha compreso il significato del termine “patriarcato”: “Ho avuto una lunga discussione chiedendole perché avesse tirato fuori questa parola – ha raccontato nei mesi scorsi -. Effettivamente ho capito che ingloba un senso del possesso, l’essere padrone non solo di cose ma anche di vite e mi ha illuminato”. “Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere”, le parole che Gino pronunciò nel suo discorso ai funerali della figlia.
C’era tanto rumore, quel freddo 5 dicembre, grazie ai diecimila in piazza. Ne aveva fatto altrettanto Elena Cecchettin nei giorni precedenti, costringendo il leader della Lega Matteo Salvini (il partito di Valditara), in quelle ore insolitamente garantista dopo l’arresto di Turetta, ad aggiustare il tiro sulla vicenda. La sorella di Giulia lo aveva attaccato condividendo questo messaggio: “Ministro dei trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta. Perché bianco, perché di ‘buona famiglia’. Anche questa è violenza, violenza di Stato”.