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Fino al 24 febbraio del 2022 la politica estera del Papa era un successo. Contestato da alcuni anche all’interno della Chiesa ma inarrestabile. Poi Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. E, tra i danni collaterali, ha mandato in crisi la Ostpolitik di Francesco.
Fin dall’inizio il pontefice argentino ha impresso una svolta alla politica estera vaticana. Archiviando definitivamente la guerra fredda, temperie che aleggiava ancora nel palazzo apostolico dopo il lungo regno di Giovanni Paolo II, il papa polacco che del contrasto all’Unione Sovietica, e al comunismo in generale, aveva fatto un asse portante del pontificato. Benedetto XVI non aveva modificato sostanzialmente il posizionamento della Santa Sede sul mappamondo. Poi è arrivato Francesco.
Cina e Russia, i due traguardi storici
Ha puntato su Cina e Russia, ed ha raccolto due successi storici. Nel 2016 ha incontrato il patriarca russo Kirill, la prima volta dopo lo scisma del 1054. Nel 2018 ha firmato un accordo con Pechino sulle nomine episcopali: era dal 1951, con la presa del potere di Mao Tse-tung, che Cina e Vaticano non si riconoscevano. Mossa contestata dai settori cattolici conservatori, nonché dall’arcivescovo emerito di Hong Kong, il cardinale 91enne Zen Ze-kiun, attaccata apertamente dall’amministrazione Trump. Ma traguardo storico, per il Palazzo apostolico, accarezzato a lungo, senza successo, da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI.
Bergoglio partiva avvantaggiato. È argentino, in sintonia con la sensibilità geopolitica dei paesi non allineati a Washington. “Il mondo occidentale, il mondo orientale e la Cina sono in grado di mantenere l’equilibrio della pace e hanno la forza per farlo”, ha detto. È gesuita, erede di quei missionari che si spinsero in America del sud e in estremo oriente con rispetto per le culture incontrate.
Soprattutto, Francesco ha rivitalizzato la Ostpolitik, una politica di non-ostilità nei confronti dell’Unione sovietica tesa a tenere vivi i legami con le comunità cattoliche oltrecortina durante la guerra fredda. Affiancato dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e dal “ministro degli Esteri”, l’arcivescovo britannico Paul Richard Gallagher, Bergoglio ha messo il suo timbro. La Ostpolitik “era fondata su due pilastri: cedimenti e giustificazioni morali”, spiega don Stefano Caprio, grande esperto di Russia, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma: “Cedimento su diverse questioni di libertà religiosa e interventi come quello del cardinale Agostino Casaroli che nel 1975 si fece garante con gli Usa dell’affidabilità dei sovietici per la firma del trattato di Helsinki”. Uno scenario che si ritrova oggi con Pechino: qualche cedimento sulla nomina dei vescovi, giustificazione della Cina come attore-chiave per la pace nel mondo.
Antiglobalismo e “global south”
“La sua è una Ostpolitik basata sull’antiglobalismo”, analizza don Caprio. Ha seguito due linee direttrici. Da un lato tesse la tela di rapporti con il “global south”, si fa portavoce dei migranti e capofila di temi come la crisi ambientale. Tende la mano ai paesi a maggioranza musulmana. Complice la crisi economica, critica gli eccessi del capitalismo. Dall’altro lato promuove una pastorale della “fratellanza”, che culmina nell’enciclica “Fratelli tutti”, in contrappunto all’ondata, che monta negli anni del suo pontificato, di sovranisti e populisti, dagli Stati Uniti al Brasile, dall’Ungheria alla Polonia all’Italia. Le due linee si tengono, e trovano nella figura di Donald Trump il controesempio perfetto.
Poi Vladimir Putin invade l’Ucraina. Resuscita la guerra fredda. Il “global south” va in ordine sparso. L’ecumenismo è terremotato dal patriarca Kirill. Francesco è spiazzato.
Aveva visto anzitempo avvicinarsi una “terza guerra mondiale a pezzi” e quando il fantasma si materializza non riesce a incidere. Cerca di raggiungere Putin al telefono ma questi non gli risponde. Evita per mesi di puntare il dito contro la Russia, nella speranza di indurla al cessate-il-fuoco, ma il Cremlino è sordo. Quando sente che la diplomazia non dà frutti, scantona: Kirill è “il chierichetto di Putin”, la Nato “abbaia alle porte della Russia”: l’unico effetto è che sia ucraini che russi si offendono.
Ucraina, la mediazione inverosimile
“Ha cercato di salvare capra e cavoli”, sintetizza don Stefano Caprio: “Difendere gli ucraini ma non rompere con il patriarcato di Mosca”. Vola in Kazakhstan, a settembre, nella speranza di riallacciare i rapporti con Kirill, ma il patriarca dà forfait. Da quel momento i suoi toni si fanno più sconsolati, la critica alla Russia più diretta, la simpatia per gli ucraini più esplicita. Ha ragione da vendere a mettere profeticamente in guardia dal rischio di un’escalation militare, a denunciare il potere dei mercanti di armi, a vedere che non c’è alternativa, alla fine, a un negoziato. Ma nulla cambia, per ora. Quando scoppia a piangere davanti all’immagine della Madonna a piazza di Spagna – è la seconda volta, la prima si era commosso davanti ai primi due vescovi cinesi che hanno partecipato a un sinodo romano – dà espressione al dolore per le vittime ucraine, e al senso di impotenza.
La Ostpolitik è morta, viva la Ostpolitik. Il fronte russo è congelato. Una mediazione vaticana pare inverosimile: i due contendenti non sono interessati ad un negoziato e non è scontato che due paesi a stragrande maggioranza ortodossa si affidino alla Santa Sede. L’obiettivo è minimale: non tornare indietro, non strappare il pur esile filo di comunicazione rimasto sia con il Cremlino, tramite l’ambasciatore presso la Santa Sede, Alexander Avdeev, sia con il patriarcato moscovita, tramite il “ministro degli esteri” di Kirill, lo scialbo metropolita Antonio. Ma Roma continua a guardare a Oriente.
La partita geostratefica del Palazzo apostolico
Alla Cina, innanzitutto. L’accordo sulle nomine dei vescovi non è privo di problemi, né Roma ignora le violazioni dei diritti umani. Ma il dialogo continua. L’assenza di revanscismo non è remissività ma consapevolezza che il Dragone è un protagonista inaggirabile, oggi e domani, in Asia come in Africa e altri continenti. I cristiani cinesi, poi, oggi sono approssimativamente 68 milioni, e, nota il Pew Research Center, “se la popolazione cristiana cinese dovesse aumentare ai livelli proiettati per la Corea del Sud nel 2050, ciò porterebbe il calcolo dei cristiani in Cina alla cifra di 437 milioni di persone”. Sarebbe, in termini assoluti, il più popoloso paese cattolico del mondo.
Proiezioni, ipotesi, che però danno la misura della partita geostrategica del Palazzo apostolico. Che guarda le cose con uno sguardo lungo nel tempo e largo nello spazio. Vede chiaramente la ricca spiritualità in Oriente. Mentre la fede cristiana, è maggioritaria, ma stabile, in America latina, si indebolisce a ritmi accelerati in Europa e America del nord, è ridotta al lumicino nei luoghi nei quali, in Medio Oriente, nacque e si diffuse, cresce invece a tassi accelerati in Africa e in Asia. Cina, sì, ma anche Corea del sud, Filippine, Giappone, India, dove Francesco intende recarsi l’anno prossimo. “La Ostpolitik cinese in prospettiva è più importante della Ostpolitik russa”, commenta don Stefano Caprio. In Asia si giocano i destini economici e militari del prossimo futuro, ma anche quelli religiosi. E Roma non intende perdere il treno della storia.