[ Leggi dalla fonte originale]
MILANO – Fu una tangente da sette milioni di lire la prima scossa di un terremoto che avrebbe travolto la classe politica della Prima Repubblica e i più grandi gruppi industriali italiani, e che da Milano si estese in tutto il Paese. Quella mattina di trent’anni fa, il 17 febbraio 1992, primo giorno di Mani Pulite, nessuno poteva immaginare che l’arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, avrebbe sconquassato in pochi mesi il Pentapartito, coinvolto il Pci-Pds e macchiato anche la Lega in vorticosa ascesa al grido di “Roma Ladrona”. Dando il via a una lunghissima stagione di arresti e inchieste: a Milano furono 4520 gli indagati, 3200 i rinviate a giudizio, 1281 le condanne, 1.111 le assoluzioni.
Giustizia
Mani Pulite e il mito del pool: la fine di un’epopea con l’uscita di scena di Davigo
di
Filippo Ceccarelli
In quei mesi Antonio Di Pietro, il pm che fa arrestare Chiesa, diventa l’uomo più popolare d’Italia. Già a maggio il capo della procura, Francesco Saverio Borrelli, affianca a lui e all’aggiunto Gerardo D’Ambrosio i pm Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, poi Francesco Greco e Paolo Ielo. Intanto ogni interrogatorio apre nuovi fronti d’indagine. Meno di tre mesi dopo l’arresto di Chiesa, il 2 maggio avvisi di garanzia arrivano agli ex sindaci Psi di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, finisce in carcere il segretario della Dc lombarda Gianstefano Frigerio e viene indagato anche il segretario amministrativo Dc Severino Citaristi.
Francesco Saverio Borrelli, il magistrato simbolo della lotta alla corruzione
Giampaolo Visetti
Il 16 maggio finisce a San Vittore il segretario milanese Pds Roberto Cappellini. A settembre la prima pagina nera dell’inchiesta, con il suicidio del deputato socialista Sergio Moroni. Dopo di lui si toglieranno la vita anche l’ex presidente Eni Gabriele Cagliari e il presidente Montedison Raul Gardini. Gli avvisi di garanzia arrivano fino ai vertici della politica: tra la fine 1992 e a inizio 1993, il segretario Psi Bettino Craxi e Pri Giorgio La Malfa sono indagati per i 150 miliardi di lire pagati da Montedison.
Di Pietro in toga da Borrelli, ma con il pool c’è il gelo
di GIAMPAOLO VISETTI
Il processo per la “madre di tutte le tangenti” si apre con un solo imputato, Sergio Cusani, l’unico a scegliere il rito immediato. In aula sfilano tutti i segretari di partito ma arrivano anche le condanne per Umberto Bossi e il tesoriere della Lega Alessandro Patelli. A inizio del ’93 viene arrestato anche Primo Greganti, il “compagno G” del Pci-Pds, considerato il custode dei segreti contabili dell’ex Pci.
Alfredo Biondi, il mattatore del Transatlantico che tentò il “colpo di spugna” su Tangentopoli
Filippo Ceccarelli
In quegli anni il pool gode di grande consenso. Il decreto che depenalizza il finanziamento illecito scatena il “popolo dei fax”, a Roma Craxi viene sommerso dalla pioggia di monetine davanti all’hotel Raphael dopo il rifiuto del Parlamento a concedere l’autorizzazione a procedere. Lo stesso pool minaccia le dimissioni per il decreto del governo Berlusconi che vuole limitare il carcere per i corrotti.
Poi i membri del pool seguono tutti strade diverse, in alcuni casi trovandosi uno contro l’altro. Di Pietro lascia la toga nel 1994, scendendo in politica e poi esercitando come avvocato. Francesco Greco, ex capo della procura di Milano, viene denunciato dal suo ex collega Piercamillo Davigo, ex membro del Csm, per le accuse e i veleni sulla gestione del fascicolo sulla “loggia Ungheria”.