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“Ogni volta che accade, e accade sempre più frequentemente, mi sento male. Provo un dolore profondo, rivedo davanti agli occhi quei momenti drammatici del 2011 e in me si rinnova una grandissima sofferenza, perché penso che le vittime di allora e la mia condanna siano state invano”: Marta Vincenzi è seduta nella biglietteria del museo di Palazzo Bianco, in via Garibaldi e legge continuamentcio sul cellulare gli aggiornamenti sulla drammatica alluvione nelle Marche. A ottobre avrà finito di scontare, con la messa a disposizione presso i servizi sociali di alcune associazioni, il primo anno di tre, cui è stata condannata, con l’accusa di omicidio colposo, per la gestione dell’alluvione di Genova del 4 novembre 2011, che costò la vita a sei persone, quattro donne e due bambine. Per ironia della sorte, il museo in cui è stata assegnata in questo periodo è proprio accanto alla sede del Comune, Palazzo Tursi, dove aveva l’ufficio, quando era sindaca.
Anche oggi, nelle Marche, ci sono bambini tra le vittime e persone uccise dall’acqua nei seminterrati, come in via Fereggiano. Sembra che non siano passati 11 anni?“Sono molto vicina a quei territori, alle famiglie delle vittime e alle persone coinvolte, sono vicina agli amministratori perchè so, per esperienza, che tutto quello che è accaduto cambierà loro la vita. Sono colpiti chi perde un affetto, chi perde la propria impresa, e chi in questo momento porta una responsabilità amministrativa e si interrogherà per sempre, ripeto per sempre, se ha fatto tutto il possibile oppure no. Sì, oggi si sono ripetute tragedie che troppo assomigliano a quelle avvenute undici anni fa. Sono morte persone negli scantinati, persone che si trovavano per strada: non si è messo in campo il primo antidoto, e la mia pena più grande è questa, insegnare capillarmente alle persone, in tutte le scuole, in tutti i luoghi di lavoro, in modo martellante, con esercitazioni collettive, e a cadenza fissa, due volte l’anno, a salvarsi la vita. Perchè, con episodi così fulminei, con eventi così devastanti e improvvisi, i primi a mettersi in salvo sono i cittadini stessi. Non scappando in strada, non chiudendosi nei seminterati. Ma, soltanto, salendo il più in alto possibile. Questo però va insegnato alle persone, che vanno fatte esercitare. E non è successo. Sono cambiate in undici anni molte cose, ma questa non è ancora cambiata”.
Nel 2011 non esisteva il sistema delle allerte, oggi sì.
“Allora, esisteva un sistema di allerta molto poco raffinato, e soprattutto diverso da Regione a Regione. Per noi, a Genova, c’erano due gradi di allerta previsti dal piano di emergenza: uno più basso, di poco pericolo, e un secondo, con un range di gravità grandissimo, dall’acquazzone al disastro. E poi, non erano normati i comportamenti dei cittadini in caso di allerta, non si parlava di resilienza, non c’era memoria collettiva degli eventi. L’ultima alluvione di Genova risaliva al 1992-1993. La macchina comunale, per gli strumenti di allora, rivendico fosse aggirornata in tutti i piani di emergenza. L’errore che è stato commesso, successivamente, è aver considerato quell’evento alluvionale, un’eccezione. Non si capì, e non si è ancora capito, che quello fu invece il prodromo, la prima avvisaglia, di eventi simili che si sarebbero susseguiti sempre più diffusamente e frequentemente sui nostri territori. Perché a Genova avvenne proprio ciò che vediamo oggi: una bomba d’acqua su poche strade. La macchina della Protezione civile deve essere perfetta, ma non basta”.
Cosa deve cambiare?
“Vanno equipaggiati i cittadini, vanno allenati alla prevenzione, manca un’organizzazione capillare e strutturata per questo. Proprio se cominciamo a cambiare l’approccio, se consideriamo questi eventi come la nostra eccezionale normalità, riusciremo a ridurre il rischio: per fenomeni come questi accaduti nelle Marche, che hanno tre caratteristiche, sono improvvisi, devastanti e possono risultare difficilmente prevedibili perchè si scatenano e si sfogano su porzioni piccole di territorio. Ecco perchè vanno equipaggiati prima di tutto i cittadini. La Protezione civile, in caso di eventi così improvvisi, anche se efficiente, arriverà già tardi: i primi a cui insegnare i comportamenti giusti, e che vanno ripetuti con esercitazioni, tanto da renderli automatici, sono gli abitanti. Va fatta formazione per l’emergenza che questo Stato non ha fatto e non fa”.
Perché dice che la sua condanna e il prezzo tragico delle vittime del 2011 siano state vane?
“Perché aver condannato una sindaca, o aver trovato un capro espiatorio, per quella drammatica vicenda, e la tragicità di quegli eventi stessi, non hanno insegnato nulla se accade ancora. Se neanche uno dei Comuni italiani, a partire da quello di Genova, ha utilizzato quell’esperienza per fare formazione, preparazione, nelle scuole. Del resto, basta guardare questa orrenda campagna elettorale, in cui nessuno parla di questo argomento, come se non riguardasse ognuno di noi. In nessun programma si parla di azioni concrete, di formazione alla resilienza. Io sconto la mia pena, e mi porto dentro gli occhi, per sempre, ciò che non passerà mai più, ma quello che aggrava il mio dolore è che sul piano politico, e umano, in unidici anni non sia cambiato nulla nell’approccio complessivo a questi eventi. Per questo, per me, oggi, è un giorno particolarmente difficile, perché oltre al dolore per le vittime, per tutte le persone coinvolte, c’è il dolore per un sacrificio, la tragedia del 2011 e la mia condanna, che appare inutile”.