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Migranti, il garante Mauro Palma: “Nei Centri di permanenza meno diritti del carcere”

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ROMA – Non solo le carceri, ma anche i Centri di permanenza per i rimpatri, i dieci Cpr che in Italia “ospitano” – si fa per dire – i migranti in attesa che sia deciso il loro destino. Ovviamente a partire dal respingimento. Il Garante dei detenuti e delle persone private della libertà Mauro Palma si occupa anche di loro, di quelli che dovrebbero essere (ma non sono) i loro diritti, dei tre mesi di vita che sono costretti a trascorrere in quello che non si chiama carcere, ma nei fatti lo è. Senza neppure i controlli (quando funzionano) di un penitenziario. Senza un giudice di sorveglianza. Senza una registrazione ufficiale di quello che accade. E che il Garante ha chiesto che fosse previsto come obbligatorio nel nuovo Regolamento. Un cammino di effettivi “reclusi” che può finire anche con un volo charter per essere respinto nella terra da cui si è fuggiti. 

Il Garante, in uno workshop, analizzerà oggi i numeri dei “rimpatri forzati”. Che sono questi: al 15 ottobre, “tendenzialmente in linea con gli anni precedenti”, sono state rimpatriate complessivamente 2.853 persone. A fronte di 93.502 ingressi. Dei voli charter, 62 erano diretti in Tunisia, 9 in Egitto, 6 in Georgia, 3 in Nigeria, 2 in Gambia e uno in Albania. Il Garante ha monitorato direttamente 27 voli. A bordo ci sono state Daniela De Robert, che fa parte del collegio del Garante, ed Elena Adamoli, che si occupa proprio dei migranti. E che ogni giorno lavorano per monitorare cosa succede nei centri, l’effettivo stato della detenzione amministrativa, le misure coercitive estreme per uno stato di diritto. E pure le fascette ai polsi imposte a ogni migrante, che non è un prigioniero, per tutta la durata del volo. Un lavoro che punta a dare trasparenza al sistema documentando cosa avviene nei centri anche rispetto agli investimenti fatti. Alla fine il giudizio è netto: “I Cpr sono un luogo meno trasparente di un carcere”. E parte da qui l’intervista con il Garante Mauro Palma.  

Dai detenuti in senso proprio, quelli che stanno nelle carceri, ai “di fatto” detenuti, i migranti chiusi in un Centro di permanenza per i rimpatri. Perché il Garante delle persone private delle libertà ha deciso di dedicare un focus proprio su questo? 

“Perché si parla troppo poco dei rimpatri forzati, e quando lo si fa, lo si fa in termini quantitativi, quasi ragionieristici. E invece sarebbe bene parlare approfonditamente di come questi rimpatri avvengono a partire dalle prime fasi di attuazione di una misura di allontanamento, e cioè il trattenimento in un Cpr”.

Lei la considera una detenzione illegale? 

“Io dico che questa forma di privazione della libertà può risultare anche più dura di quella penale: nei Cpr non esiste una figura come quella del magistrato di sorveglianza, che ha il dovere di controllare come si svolge la vita delle persone ospitate nei centri”. 

I suoi funzionari che visitano i Cpr che cosa hanno visto e cosa possono documentare? 

“Nei Cpr non ci sono praticamente attività, i giorni passano sempre uguali, ancor più uguali che in carcere. Certo non avrebbe senso un ‘trattamento’ per persone che dovrebbero rimanere in quei luoghi per pochissimo tempo. E tuttavia non è ammissibile che un ospite dei Cpr venga visto come una persone sulla quale non vale la pena di fare alcun investimento, come una persona a perdere. Anche perché la dignità delle persone, come scriveva Antonio Cassese, non è solo un diritto della persona, ma riguarda e interroga la collettività nel suo insieme”. 

Con la Direttiva del ministro dell’Interno del 19 maggio scorso, a cui dedicate il workshop di oggi, e che si traduce nel nuovo regolamento della vita nei Cpr, cosa cambia rispetto a questa visione drammatica? 

“La Direttiva è importante proprio perché riguarda la nuova disciplina dei Centri di permanenza per il rimpatrio, rispetto alla quale il Garante nazionale ha espresso alcuni pareri, in diverse parti recepiti nel testo adottato, contribuendo così ad innalzare gli standard che dovranno essere raggiunti per la tutela dei diritti fondamentali delle persone trattenute nei centri”. 

Cosa avete chiesto e cosa avete ottenuto per rendere più trasparenti e garantiti questi luogo di detenzione? 

“Tra le proposte recepite c’è quella, importante, che riguarda l’obbligo per gli enti che gestiscono i Cpr di istituire dei registri degli eventi critici, analogamente a quelli che esistono per il carcere”. 

Lei sta dicendo che se scoppia una rivolta, se bruciano i materassi, o anche se avviene una violenza su una donna, tutto questo deve restare scritto da qualche parte? È incredibile che già non avvenga così.

“Si tratta di un passo verso la trasparenza, importante sia perché gli enti gestori sono soggetti privati, sia perché la documentazione che devono predisporre su ciò che accade all’interno di una struttura chiusa è un parametro rilevante per comprendere cosa avvenga all’interno da parte di chi, come nel caso del Garante nazionale, deve vigilare sull’assoluta tutela dei diritti delle persone ristrette lì dentro”. 

Crede davvero che questo regolamento possa funzionare?

“Sicuramente sarà utile per far approntare le necessarie misure a chi gestisce eventuali segnali di allarme”. 

E questi registri che documentano i casi di rivolte e violenze andranno anche nelle mani delle forze di polizia? 

“Questo passo non è ancora previsto. Così come il nuovo Regolamento non prevede una raccomandazione particolare e specifica al personale sanitario sull’importanza di di riferire tempestivamente alle autorità competenti l’eventuale presenza sugli ospiti di segni compatibili con violenze subite. Ma si tratta di passi che, via via, dovranno essere necessariamente compiuti”.

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