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Le loro voci, le loro storie. Arrivano dal silenzio e dal segreto. Scelgono quasi tutti l’anonimato e l’ombra, sono millecinquecento, forse duemila l’anno, la statistica per ora è soltanto approssimativa, filtra dalle cliniche dell’Est, tutto il resto sfugge. Sono le coppie (eterosessuali, in questo caso) che diventano genitori, legalmente nei Paesi in cui accade, con la maternità surrogata, criminali, in un prossimo futuro, per lo Stato italiano, dove la gestazione per altri è già un reato, ma se venisse approvato il disegno di legge unificato Meloni-Carfagna diventerebbe “reato universale”, punito anche con il carcere. Lorenzo e Margherita ad esempio, volati in Ucraina tre anni fa, oggi genitori di Luce (così la chiameremo, perché, dicono, lei è la nostra luce), finiti in un limbo giudiziario per il quale Luce risulta “apolide”.
Maternità surrogata, Patrizia Lo Bracco: “Quattro cesarei e poi Ginevra nata da una madre di Kharkiv. Non giudicate chi dà la vita”
di
Maria Novella De Luca
OFrancescoeGraziail cui figlio è nato nel bunker di una clinica di Kiev, sotto un cielo ferito dagli allarmi bomba, abbracciato dopo un lungo e periglioso viaggio. “Esporci oggi con nome e cognome? Con il rischio che per aver fatto nascere legalmente un bimbo ci considerino dei fuorilegge nel nostro Paese? No, grazie. Il nostro Comune ha trascritto il certificato, il piccolo sta bene, anche se ogni rumore lo spaventa, e bisogna cullarlo piano piano perché si tranquillizzi. Pappe, biberon e silenzio, per adesso va bene così”.
Martina Colomasi
Martina che donerà l’utero
Ma c’è anche chi il silenzio lo rompe, come Patrizia Lo Bracco e Damiano Pini, Ginevra è la loro quinta figlia, nata grazie a una “portatrice”. O le coppie omosessuali, dove le madri surrogate spesso diventano parte della famiglia. C’è Martina Colomasi, avvocata, 33 anni, che si propone come madre surrogata solidale. “Anni fa ho già donato i miei ovociti grazie ai quali una donna, che naturalmente non conosco, è diventata mamma. Vorrei avere la libertà, anche, di donare il mio utero, magari dopo aver avuto io un figlio, lo farei per mio fratello che è gay, per chi non può portare avanti una gravidanza. E sono autonoma, non ho certo bisogno di soldi”.
Maria Sole Giardini, è nata senza utero, la sua sindrome si chiama Rokitansky, ha chiesto invano, insieme all’Associazione Luca Coscioni, che il tribunale in Italia la autorizzi a diventare madre grazie alla gestazione, altruistica, di un’altra donna. “Come me ci sono altre seimila italiane. E tante donne pronte a donare l’utero. Lo Stato ci ascolti”. Nomi e voci da un mondo che fatica a venire allo scoperto. Provando a sentire senza giudicare. Perché la maternità surrogata è un tema controverso, di feroci contrapposizioni. Le donne che danno il proprio utero con un rimborso spese o un compenso, sono “libere” o soggette al bisogno? Quanto conta il loro dolore nel distaccarsi da quella gravidanza? E il bambino che nasce da queste triangolazione ne porterà le conseguenze?
La legge, il desiderio, la realtà.
Per anni si è parlato di maternità surrogata soltanto in relazione alle coppie di uomini diventati padri negli Usa e in Canada con la gestazione di supporto. Storie alla luce del sole, grazie anche all’incessante lavoro dell’associazione “Famiglie Arcobaleno”. Eppure, statisticamente, nell’universo della surrogacy, le coppie Lgbtq sono numericamente residuali, forse il 10 per cento. Poi è arrivato il Covid e la guerra in Ucraina e un velo si è squarciato sul vero fenomeno della maternità surrogata eterosessuale. Ricordate le centinaia di culle ammassate in un albergo di Kiev, epicentro della gestazione per altri, costo medio 70mila euro, in attesa che i genitori committenti potessero andare a prendere i loro neonati? Nei primi mesi di guerra è toccato alla nostra ambasciata evacuare le coppie italiane in fuga con i loro piccoli, mentre le gestanti ucraine partorivano nascoste nei bunker.
Spiega Giorgio Muccio, avvocato di Bologna, che segue decine di coppie “emigrate” per fare la surrogacy. “Possiamo parlare di oltre 1.500 coppie eterosessuali, i gay non sono ammessi, che si sono rivolte nell’ultimo anno alle cliniche ucraine, più un’altra quota che si disperde tra Grecia, Russia, Georgia. Dall’Ucraina le coppie tornano con un certificato di nascita dove appaiono come genitori del bambino. E il figlio deve avere il Dna almeno di uno dei due”.
La bambina apolide
Cosa accade quando una coppia torna in Italia dove la maternità surrogata è proibita? “In questi ultimi anni – spiega Muccio – i Comuni hanno trascritto i certificati di nascita rilasciati dai Paesi dove la surrogacy è legale. In alcune situazioni è stata contestata un’alterazione di stato civile”.
Poi ci sono i casi limite. Lorenzo, papà di Luce, fa l’avvocato e pesa le parole. Abita in Veneto, è seguito dall’avvocato Muccio e della sua incredibile storia si occuperà la Corte di Strasburgo. “Luce è arrivata nella nostra vita dopo 14 anni di tentativi e l’attesa, vana, di un’adozione. Con la donna che generosamente ci ha aiutati a diventare genitori, Vania, siamo rimasti sempre in contatto, Luce saprà tutta la verità sulla sua nascita. Oggi però viviamo un incubo: a tre anni dalla nascita, nonostante Luce abbia il mio Dna, per l’opposizione prima del Comune poi del tribunale, non sono ancora riuscito a darle il mio cognome. Luce per l’Italia non esiste, non può andare all’asilo pubblico, non ha la copertura sanitaria. Luce è apolide”.
Il papà gay
Andrea Rubera e Dario De Gregorio hanno tre figli nati con gestazione di supporto in Canada, dove, racconta, “la legge sulla surrogacy è tra le più rigorose del mondo”. “Prima di compiere questo passo ci abbiamo pensato a lungo, se fosse stato possibile avremmo adottato, abbiamo conosciuto “Famiglie Arcobaleno” e capito che saremmo stati in grado di diventare genitori. Abbiamo scelto il Canada perché lì la maternità surrogata è totalmente altruistica, ed è la donna che sceglie la coppia di futuri genitori, non il contrario. Si segue un percorso lungo, ci si conosce, la mamma surrogata diventa un elemento paritario di questa avventura. Lei si chiama Carrie ed è oggi una figura fondamentale nella nostra vita. La risposta alle situazioni di sfruttamento, che esistono, non è il disegno di legge di Meloni, ma leggi come quella canadese”.