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Open Arms, tutte le tappe della vicenda che ha portato Salvini a processo

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Dopo tre anni di processo, ventiquattro udienze e quarantacinque testimoni chiamati alla sbarra, è attesa per domani, venerdì 20, la sentenza per Matteo Salvini al processo Open Arms.

“Rischio sei anni di carcere per aver difeso i confini”, la spiega lui, ma per la procura di Palermo nell’agosto 2019, da ministro dell’Interno, per diciannove giorni ha illegittimamente impedito lo sbarco alla nave ong Open Arms, che a bordo aveva 147 persone, fa cui 27 minori, soccorsi in tre distinte operazioni.

Per lui, la procura di Palermo ha chiesto sei anni di carcere per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, perché il “porto sicuro doveva essere rilasciato senza indugio e subito, il diniego è stato in spregio delle regole e non per proseguire in un disegno governativo”, hanno spiegato i pm durante la requisitoria. “I diritti dell’uomo – hanno sottolineato – vengono prima della difesa dei confini”.

Se sia atto amministrativo o politico, è il nodo vero del processo. Per la procura di Palermo, la decisione di non concedere il porto ad una nave carica di naufraghi, di per sè vulnerabili protetti da norme nazionali e internazionali, non si può considerare un atto politico, ma solo il rifiuto di compiere un atto amministrativo doveroso. Di tutt’altro avviso, Salvini e il suo pool di legali, guidato dall’avvocata Giulia Bongiorno, che con toni e modi differenti hanno sostenuto dentro e fuori dall’aula che si sarebbe trattata solo du una legittima scelta politica di “difesa dei confini”.

In realtà, esattamente sul punto si è pronunciato il tribunale dei ministri, che ha espressamente ravvisato la natura “ministeriale” dei reati e proprio per questo ha proceduto alla formulazione dei capi di imputazione, su cui poi il Senato si è pronunciato. Dall’istruttoria, si spiega nelle 114 pagine di decisione, emerge che Salvini abusando dei propri poteri ometteva, “senza giustificato motivo, di esitare positivamente le richieste di Pos inoltrate al suo ufficio il 14, 15 e 16 agosto, provocando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale dei predetti migranti”. Una decisione consapevole, mai modificata anche a dispetto delle diverse sollecitazioni che arrivavano da altri membri del governo e assunta – emerge da quelle pagine – nella piena consapevolezza della violazione della normative, nazionali e internazionali che non «essere disattese o violate in funzione del perseguimento della spiegata linea di indirizzo politico».

All’origine della vicenda, tre salvataggi avvenuti nell’estate dei porti chiusi alle navi ong dal decreto sicurezza bis, in seguito in larga parte stracciato dalle Corti.

Il primo avviene il 1 agosto, con decine di persone tirate su da una bagnarola alla deriva in mezzo al mare. Poco dopo l’equipaggio interviene in soccorso di una seconda imbarcazione. In tutto a bordo sono 124 e subito, il 2 agosto, viene chiesto pos, cioè il primo porto sicuro disponibile che per norme internazionali l’autorità costiera più vicina è tenuta a dare. Roma risponde con il divieto di entrare in acque italiane previsto dal decreto sicurezza bis. A bordo, due persone necessitano di cure mediche urgenti, vengono evacuate insieme a un familiare. Sulla Open rimangono 121 persone. Tra loro 32 minori, di cui 28 non accompagnati.

Per una settimana, nessuno da Roma risponde alle continue richieste di pos. Il 9 agosto Open Arms, che nel frattempo ha segnalato alla procura per i minorenni di Palermo la presenza di minori soli a bordo in condizione di vulnerabilità, chiedendo di farli sbarcare, deposita un esposto in cui chiede alle autorità competenti di verificare se e in che misura impedire lo sbarco alle persone possa essere configurabile come reato. A bordo arriva Richard Gere insieme al figlio. Portano acqua, viveri, beni di prima necessità. Era in vacanza in Italia e “ho provato vergogna e sentito la necessità di fare qualcosa”, ha spiegato in seguito.

In quei giorni, la nave ong continua a fare avanti indietro al limitare delle acque italiane. Il 10 agosto si rende necessario intervenire in soccorso di altre 39 persone, mentre continuano i trasferimenti a causa delle condizioni di salute sempre più precarie dei naufraghi. Alle richieste di pos, Roma continua a non rispondere.

Il 12 agosto arriva la prima svolta. Dal tribunale per i minorenni di Palermo rispondono che un reato c’è. Le norme nazionali e internazionali, ricordano, “impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno”. Al governo, i magistrati chiedono spiegazioni al riguardo.

Ventiquattro ore dopo, il 13 agosto, i legali di Open Arms si rivolgono al Tar del Lazio, contestando il divieto di ingresso nelle acque territoriali disposto dal ministero dieci giorni prima. I giudici rispondono nel giro di un giorno, sospendendo il provvedimento. La nave fa rotta verso l’Italia, ma il porto sicuro non viene comunque assegnato. Roma, al contrario, si rivolge al Tar solo per opporsi alla sospensione del decreto.

Il 16 agosto i legali di Open Arms, arrivata nei pressi di Lampedusa, bussano al Tribunale di Agrigento per presentare un nuovo esposto per omissione di atti d’ufficio e altri reati. A bordo la situazione si fa sempre più drammatica: i casi medici peggiorano, così come le condizioni igienico sanitarie, viveri e acqua scarseggiano. Tredici persone si gettano in acqua per disperazione e vengono soccorse dalla Guardia costiera. Nel frattempo – ma si scoprirà solo dopo – fra Salvini e l’allora premier del governo giallo-verde Giuseppe Conte c’è un fitto carteggio. Nella sua missiva Conte sottolinea che il no allo sbarco rischia di configurare una violazione di legge, l’allora ministro dell’Interno la ignora. Quella lettera è oggi una cosiddetta “prova regina”.

Il 19 agosto l’ong spagnola si rivolge nuovamente al Tar del Lazio. Nell’atto di costituzione si segnala che “La situazione è diventata ingestibile a causa di ripetute manifestazioni di insofferenza da parte delle persone tratte in salvo da 18 giorni e che hanno anche tentato di raggiungere a nuoto la costa gettandosi in mare”. I naufraghi, sottolineano, “sono in preda a frequenti attacchi d’ansia e di panico”. Le evacuazioni mediche sono continue e questo crea ancora maggiore tensione: chi rimane a bordo non capisce perché.

Il 20 agosto la situazione si sblocca. A bordo sale il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio per verificare personalmente la situazione e dopo un paio d’ore ordina lo sbarco immediato, ipotizzando il reato di abuso d’ufficio. Il giorno stesso la nave attracca a Lampedusa con 83 persone a bordo.

A novembre Salvini viene formalmente indagato dalla Procura di Agrigento, l’ipotesi di reato è cambiata. Alla luce di testimonianze e documenti raccolti i magistrati procedono per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. Il 27 novembre il procuratore della Repubblica di Palermo, sulla scorta delle notizie acquisite dalla Procura della Repubblica di Agrigento, chiede al Collegio per i reati ministeriali di verificare se ci siano le condizioni per proceder contro il senatore Matteo Salvini, che all’epoca ha già lasciato il Viminale, e il suo capogabinetto dell’epoca, l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Esaminato il caso, per il Tribunale dei ministri, “la condotta posta in essere dal ministro Salvini non sia inquadrabile nel novero degli “atti politici”, in quanto tali sottratti al sindacato dell’autorità giudiziaria, ma in quelli amministrativi, come tali sindacabili dal giudice”.

A febbraio il tribunale dei ministri chiede al Senato l’autorizzazione a procedere. A maggio la Giunta per le immunità la respinge, a luglio il Senato vota per mandare Salvini a processo. L’udienza preliminare del gennaio 2021 decide che ci sono tutti gli elementi per andare in aula: Salvini viene rinviato a giudizio.

Da allora sono passati più di tre anni. Sul banco dei testimoni si sono avvicendati membri dell’equipaggio come Ani Montes, all’epoca capomissione, che ha raccontato le dure settimane di attesa a bordo, con la tensione che cresceva e le condizioni dei naufraghi che peggioravano, medici e psicologi che hanno confermato le condizioni clinicamente gravi delle persone, gli ex ministri Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, che hanno sottolineato come la decisione di vietare lo sbarco fosse esclusivamente di Salvini e non del governo, l’allora premier Conte, che in aula lo scarica: “Sollecitai il ministro Salvini a far sbarcare i minori a bordo della Open Arms perché secondo me era un tema da risolvere al di là di tutto”, tuttavia – spiega – “C’era un clima incandescente rispetto a una competizione elettorale che poteva essere imminente e si voleva rappresentare un presidente del Consiglio debole sul fenomeno immigratorio mentre il ministro dell’Interno aveva una posizione di rigore”. Parlano i naufraghi, i funzionari del ministero, i medici, il personale di terra dell’ong.

Il 13 settembre, dopo sette ore di requisitoria i pm Geri Ferrara, Marzia Sabella e Giorgia Righi, chiedono la condanna di Salvini a 6 anni. Lui risponde con un video sui social, in cui definisce tutto una follia. Nel frattempo, si scatena una campagna di fango, accuse e minacce contro la procura, che convince la prefettura ad aumentare le misure di protezione per i pubblici ministeri che stanno sostenendo l’accusa. Il 18 ottobre, l’avvocata Giulia Bongiorno interviene a difesa dell’attuale ministro dei Trasporti, accusando l’ong di aver “bighellonato” per forzare la mano al ministero. Domani l’ultima parola ai giudici.

 

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