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Mai come in questi due anni la parola “rischio” è stata sulla bocca di tutti, praticamente sempre: rischio contagio, rischio malattia, rischio recessione, rischio isolamento e chi più ne ha più ne metta, visto che il mondo sembrava (sembra?) una polveriera di minacce pesanti sempre pronta a esplodere. Ma il rischio anima anche scenari meno cupi: grazie al brano di Mahmood e Blanco, vincitori della settantaduesima edizione del Festival di Sanremo e sesti classificati a Eurovision 2022, per esempio, siamo chiamati a riflettere sui “Brividi” causati dalla paura d’amare e di mettersi in gioco.
Di fatto, nonostante l’inflazione comunicativa, il rischio, nella sua essenza più veritiera, continua a essere un grande sconosciuto. O meglio, il grande nemico da combattere, nel tentativo di controllarlo. Non c’è condotta umana che lo possa annullare, però, ci dice la professoressa Lucia Savadori, docente di psicologia generale all’università di Trento. È quindi più pragmatico (e opportuno) cercare di utilizzare a nostro vantaggio quel tanto di buono che c’è nell’azzardo, come sostiene nel libro Rischiare. Quando sì e quando no nella vita di ogni giorno, di cui è coautrice (ed. Il Mulino, 11 €).
Perché si marchia il rischio con il bollino nero?
Perché si tende a scambiarlo con il pericolo. Ma i due termini hanno significati diversi. Entrambi si riferiscono a un’azione, un evento, una condizione in grado di generare conseguenze sfavorevoli, più o meno gravi. Ma mentre il rischio è una valutazione di probabilità sulle implicazioni immediate e future che si basa sull’incertezza (il danno ci può essere come no) e varia da persona a persona, il pericolo ha caratteristiche oggettive: fare quella certa cosa è sempre doloso, indipendentemente dalle nostre previsioni. È il parallelismo che corre tra guidare in sicurezza e guidare a folle velocità: il primo può essere anche un rischio, l’altro è sempre un pericolo.
Come lo definisce, perciò?
L’assunzione di rischio fa parte della natura umana, ed è una componente essenziale della capacità decisionale. Di fronte a un bivio, se non ci mettiamo in gioco non otteniamo niente! Questo per affermare che non rischia solo chi s’arrampica in montagna, chi compra azioni o chi gioca d’azzardo ma anche lo studente che opta per un certo corso universitario o il giovane che mette su famiglia.
A conti fatti, tutti i giorni rischiamo. A fare la differenza è il modo in cui ciascuno di noi affronta una scelta: se pensiamo che possa comportare una perdita parliamo di rischio, se siamo convinti che arrechi un guadagno (materiale o morale) la viviamo come un’opportunità. Ecco perché noi psicologi definiamo il rischio essenzialmente come “una rappresentazione mentale”.
Non possiamo calcolare il grado di rischio di qualsiasi azione, ci sta dicendo…
La classica frase d’avvertimento: “questa cosa è scientificamente dimostrato che è rischiosa o viceversa” non ha fondamento. Di sicuro il rischio può essere misurato e trasformato in numero, e c’è una scienza che si occupa di farlo. Ma questo valore non è un dato di realtà dal momento che, a seconda dei parametri usati per calcolarlo, il risultato cambia. Non esiste, alla prova dei fatti, un rischio oggettivo, una tabella certa e universale su cui una persona può basare le proprie azioni e mettersi al sicuro. Il rischio come concetto assoluto valido per tutte le circostanze è un’invenzione dell’umanità.
Ognuno deve fare la propria stima, perciò?
Sì, decidere di correre un rischio è spesso una questione di come si guarda alla situazione, di come si percepiscono i fatti, sovrastimandoli o sottovalutandoli. È un processo cognitivo individuale, siamo noi che creiamo la nostra mappa mentale di rischiosità. È un assunto che spiega come mai le persone, a volte, temano attività che non sono in realtà pericolose e non abbiano, invece, paura di altre che potrebbero avere conseguenze drammatiche. A riprova che il rischio soggettivo non coincide, spesso, con quello calcolato.
In questo “bilancio” personale, comunque, pesano alcuni fattori generalizzati: per esempio, giudichiamo meno rischiose attività sulle quali possiamo esercitare molto controllo (come la guida) o che scegliamo volontariamente di fare oppure di cui riconosciamo i benefici (tipo una radiografia).
Cosa ci rende capaci o meno di rischiare?
C’è una componente genetica e una appresa. La prima è legata a un certo tipo di personalità: gli impavidi hanno più aspettative positive riguardo a una certa azione e/o scelta; i prudenti hanno sempre paura di perdere qualcosa, giocano in difesa. Su questa propensione naturale, poi, si innesta l’esperienza, che gioca un ruolo rilevante: quando abbiamo una grande dimestichezza con un certo tipo di contesto abbassiamo sempre più il nostro livello di sicurezza, prendendoci ulteriori rischi. Anche la giovane età (tra i 16 e i 30 anni) e il sesso maschile spingono il piede sull’accelleratore.
Com’è una persona propensa al rischio?
Attratta dall’occasione. Il suo tratto distintivo è che risponde molto velocemente alla domanda: “Ma io cosa posso ricavare da questo? “Cosa mi potrebbe piacere?” “Che sensazioni nuove posso ottenere?”. È trainata dal desiderio di avere un vantaggio, una grande motivazione a buttarsi in una certa impresa. Un individuo tendenzialmente in evoluzione, sempre in movimento. E che gode di grande ottimismo.
Non c’è la tentazione di sfide continue?
Il paracadutista che si lancia nel vuoto rischia molto, il ragazzo che guida nella notte a fari spenti altrettanto. Tutti e due cercano il brivido ma a fare la differenza è l’approccio. Consapevole l’appassionato di sport estremi (sa quello che sta facendo e prende tutte le precauzioni possibili per ridurre i pericoli), impulsivo e cieco lo spericolato (vuole solo sfidare la sorte e non sa a cosa può andare incontro).
In pratica, quando vale la pena azzardare?
Nel momento in cui sentiamo di padroneggiare la situazione. Il rischio, se ben ponderato, è un’opportunità di crescita, non uno smarrimento di coscienza e responsabilità. Tra l’altro, in questo percorso siamo supportati dal nostro sistema automatico di gestione del rischio, che è molto rodato, efficiente e ci permette di fare tante cose senza calcoli, tipo attraversare la strada nel momento giusto.
In che modo?
Secondo alcuni autorevoli studiosi come il Premio Nobel 2002 per l’economia Daniel Kahneman, psicologo, una buona strategia è seguire il nostro istinto e, poi, fare una pausa – non troppo lunga, però – per prendere informazioni ed esaminare il da farsi. Si tratta di negoziare tra emotività e razionalità. Se, dopo aver contato fino a 10 non abbiamo trovato argomentazioni assolutamente contrarie, agiamo. I calcoli sono una robusta corazza e un’arma in più: ci servono sia per affrontare eventuali fallimenti che ulteriori rischi.
Questo è il momento storico del rischio o della cautela?
La nostra società ha perso il gusto del rischio, tutti protesi a conservare lo status quo di benessere che ci eravamo conquistati negli ultimi decenni. Ma il Coronavirus ha rimescolato le carte, e ora ci spinge a rischiare. È giusto che pungoli: le opportunità di cambiamento sociale, culturale, professionale ci sono e vanno cavalcate. Soppesando bene, però, le possibili perdite.
Più impauriti dopo il Covid-19?
«La pandemia ha cambiato la nostra percezione del rischio», afferma Lucia Savadori. «Ma non è stata la presenza del virus in sé ad alzare la nostra soglia di paura. Questa, infatti, è regolata da sistemi ancestrali che non cambiano a seconda del tipo di pericolo che abbiamo davanti. Semmai, è lo stile di vita indotto dall’emergenza che ha ridotto il nostro raggio di esperienze. Le persone, chiuse in casa, sono rimaste immature dal punto di vista sociale, affettivo, lavorativo. E, non avendo avuto la possibilità di sviluppare certe abilità, adesso fanno più fatica a fronteggiare situazioni di rischio. Siamo come ragazzini di 12 anni a cui la vita chiede di fare cose da 30enni».
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