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ROMA – È una specie di rebus costituzionale. E ruota attorno ad un gigantesco dilemma: che succede se il Parlamento sceglie Mario Draghi come Presidente della Repubblica, creando l’inedita condizione di un premier che deve dimettersi nelle mani del Capo dello Stato a cui deve succedere? E che, nello stesso tempo, ha tra le sue principali prerogative quella di gestire la partita del suo successore a Palazzo Chigi? Un rompicapo difficile anche solo a pronunciarsi. Non a caso, nelle ultime settimane anche gli uffici tecnici dei vertici istituzionali si sono consultati, in modo informale e ufficioso. Scambiandosi opinioni, in linea puramente teorica. E scandagliando le possibili tappe di un percorso ordinato.
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di
Concetto Vecchio
03 Dicembre 2021
È un affascinante garbuglio che non può che richiamare l’attenzione degli esperti del Quirinale e della Camera dei deputati, il ramo del Parlamento chiamato a gestire l’iter dell’elezione del nuovo Presidente. A conoscenza delle possibili soluzioni tecniche sono ovviamente anche gli uffici di Palazzo Chigi. Qualcosa sembra ormai pacifico. Qualcos’altro resta in sospeso, per il momento.
Tre, in particolare, i quesiti a cui provare a dare risposta. Il primo: fino a oggi il presidente del Consiglio dimissionario è sempre rimasto in carica in attesa del giuramento del successore, stavolta le dimissioni di un premier eletto Capo dello Stato diventerebbero immediatamente esecutive? Se così è – e così sembra essere – sarebbe allora il ministro più anziano a succedere immediatamente al premier dimissionario? E soprattutto: chi gestirebbe le consultazioni per il nuovo esecutivo?
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di
Giovanna Vitale
03 Dicembre 2021
Alcuni punti fermi sembrano emergere. E vanno esplorati, partendo da un possibile percorso. Primo passo: il Parlamento elegge Draghi Presidente della Repubblica. Secondo: l’ex banchiere si reca al Quirinale per formalizzare dimissioni immediate. La sua elezione al Colle, infatti, dovrebbe essere considerata tra i casi di “impedimento temporaneo” di un premier, previsto dall’articolo 8 della legge 400 del 1988. Se così fosse, dovrebbe subentrare il ministro più anziano. Si tratta di Renato Brunetta, che guiderebbe il governo come fosse un “reggente”.
A quel punto, si aprirebbe una fase del tutto nuova per individuare il nuovo capo dell’esecutivo. E siamo al secondo bivio: chi guiderà le consultazioni, Mattarella o Draghi? Il percorso più lineare – ma anche tecnicamente articolato – dice: l’ex banchiere. Per farlo, serve una condizione prevista dall’articolo 91 della Costituzione: che abbia prestato giuramento da Presidente della Repubblica. Questo passaggio non potrà però avvenire, stavolta, contestualmente alla sua elezione, perché prima c’è da completare la transizione con Brunetta.
Se inoltre l’elezione di Draghi avvenisse prima del 3 febbraio 2022 – data di scadenza del settenato di Mattarella – occorrerebbero le dimissioni del Presidente per accelerare l’insediamento del nuovo Capo dello Stato. Dimissioni a cui seguirebbe la convocazione delle Camere e il giuramento in Aula. Anche facendo molto in fretta, ci sarebbe probabilmente la necessità di una seconda “reggenza”, quella al Colle. Magari anche solo di poche ore, affidata alla presidente del Senato Casellati.
Un incastro complicatissimo, come detto. A meno che l’elezione di Draghi al Colle non avvenga dopo il 3 febbraio. L’attuale Presidente, infatti – come ha ricordato il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica – resta in carica anche oltre la scadenza, fino al giuramento del suo successore. Questo scenario dovrebbe evitare almeno il passaggio delle dimissioni anticipate. Non è escluso, tra l’altro, che Roberto Fico decida di convocare le Camere attorno al 26 gennaio, favorendo questo schema. L’alternativa, già circolata, è che si parta molto prima, tra il 18 e il 20 gennaio. In questo caso, è possibile che si proceda con un solo scrutinio al giorno, anche in chiave anti-Covid. Esiste teoricamente anche un’altra possibilità. Non è però priva di problemi, secondo alcune fonti addirittura insormontabili. Parte da una precondizione: l’accordo politico per eleggere Draghi dovrebbe essere accompagnato da un patto altrettanto solido attorno al nuovo premier.
La maggioranza di unità nazionale, insomma, oltre a votare Draghi assumerebbe contestualmente un impegno politico sul nuovo presidente del Consiglio. Se così fosse, Draghi potrebbe salire al Quirinale per dimettersi. E potrebbe essere il Presidente della Repubblica uscente a convocare immediatamente dopo la personalità a cui conferire l’incarico per Palazzo Chigi. In poche ore, giurerebbe con i suoi ministri. Si eviterebbe la reggenza, che sulla carta potrebbe anche durare mesi. Con il governo in sicurezza, inoltre, si potrebbe attendere anche la scadenza naturale del settennato. Questa strada, però, presenta un ostacolo. Sarebbe il Capo dello Stato uscente – e non quello appena eletto – ad assumere la decisione più rilevante fra quelle che gli spettano: la scelta del premier.