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Referendum bocciati, Consulta: “Manipolativo e non chiaro quello su responsabilità civile dei giudici”

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ROMA – Il referendum sul fine vita dell’Associazione Luca Coscioni che la Corte ha sempre definito come quello sulla norma del codice penale – l’articolo 579 – intitolato all’omicidio del consenziente? Respinto e dichiarato inammissibile perché “non assicura la tutela minima del diritto alla vita”.

Lo stop al referendum sulla cannabis e sulla sua liberalizzazione per uso strettamente personale su cui i Radicali avevano raccolto le firme? Si tratta di “un quesito contraddittorio, contrario agli obblighi internazionali e inidoneo allo scopo”.

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23 Febbraio 2022

E infine perché il no al quesito sulla responsabilità civile dei giudici, che fa parte del pacchetto dei referendum proposti dalla Lega e dai Radicali, poi presentati in Cassazione da nove Regioni guidate dal centrodestra (Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte)? Perché, secondo la Consulta, si tratta di un quesito “manipolativo, non chiaro e inidoneo allo scopo”.

A sole due settimane dalla decisione della Consulta sul pacchetto degli otto referendum – tre respinti e cinque ammessi, tre respinti e cinque ammessi, tutti sulla giustizia – i giudici depositano anche le tre sentenze con le motivazioni, presentando il proprio punto di vista.

Perché no al quesito sul fine vita

“Rendendo lecito l’omicidio di chiunque abbia prestato a tal fine un valido consenso, priva la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione”. Ecco la ragione – scritta da Franco Modugno, il costituzionalista della Sapienza nelle vesti di relatore del quesito che è stato presentato come quello sull’eutanasia – che ha portato la Consulta a dire no all’Associazione Luca Coscioni, che pure aveva raccolto migliaia di firme, e si batte da anni per consentire un accesso giusto, ma anche rapido, al fine vita. Prova ne è la vicenda di Dj Fabo e dell’aiuto fornito dal tesoriere dell’Associazione Marco Cappato. Che ha criticato, anche duramente, il no della Consulta.

Ma la Corte è stata irremovibile. Perché il quesito – come spiega una nota dell’ufficio stampa che riassume la sentenza e le sue motivazioni – mediante l’abrogazione di frammenti lessicali dell’articolo 579 del codice penale e la conseguente saldatura dei brani linguistici rimanenti, avrebbe reso penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa al di fuori dei tre casi del cosiddetto “consenso invalido”, previsti dallo stesso articolo 579, al terzo comma. E cioè, quando il consenso stesso è prestato da minori di 18 anni; o ancora da persone inferme di mente oppure affette da deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di alcool o stupefacenti; o infine il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, o carpito con inganno.

Come scrive il giudice Modugno, se il referendum fosse stato ammesso, sarebbe stata sancita, al contrario di quanto avviene oggi, “la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo”. Il via libera al quesito avrebbe reso lecito – come scrive la nota della Corte – “l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata”.  E quindi la possibilità di togliere una vita “sarebbe andata ben al di là dei casi in cui è voluta dal consenziente prigioniero del suo corpo a causa di una malattia irreversibile, di dolori e di condizioni psicofisiche non più tollerabili”.

Secondo la Corte l’incriminazione dell’omicidio del consenziente, al di là della logica “statalista” in cui è stata pensata, risponde, nel mutato quadro costituzionale, allo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto, ma non solo, delle persone più deboli e vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate. Quando viene in rilievo il bene “apicale” della vita umana – precisa la stessa Corte nelle motivazioni della sentenza – “la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”.

E dunque il legislatore può anche cambiare l’articolo 579 del codice penale, ma non può cancellarlo con un tratto di penna, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione. Una tutela minima che non sarebbe stata garantita dalla punibilità nei tre casi di consenso non valido (dato da minori di 18 anni, infermi, o estorto). Secondo la Corte invece  “l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili”.  

Perché no al quesito sulla cannabis

È il giudice Giovanni Amoroso a scrivere e firmare le motivazioni del no della Corte al referendum sull’abrogazione delle “disposizioni penali e delle sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope”. Una inammissibilità in linea con la costante giurisprudenza sull’articolo 75 della Costituzione sui referendum perché, secondo la Consulta, il quesito si pone in contrasto con le Convenzioni internazionali e la disciplina europea sulla materia, difetta di chiarezza e coerenza intrinseca e di conseguenza è inidoneo all’obiettivo.

Come ricostruisce la sentenza di Amoroso, il Comitato promotore ha articolato il quesito referendario in tre parti, che miravano a depenalizzare la coltivazione della cannabis, a eliminare il carcere da due a sei anni per tutti i reati concernenti le droghe leggere e a escludere anche la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida in caso di uso personale di stupefacenti, sia di tipo pesante, sia di tipo leggero.

Ovviamente la motivazione della Corte è molto dettagliata ed entra nel merito della legge. Eliminare la parola “coltiva” dal primo comma dell’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti avrebbe fatto venir meno la rilevanza penale anche della coltivazione delle piante da cui si estraggono le droghe pesanti, anche se, a detta degli stessi promotori del referendum, il quesito voleva depenalizzare le sole condotte di coltivazione “domestica” e “rudimentale” delle piante di cannabis. 

Invece la Corte ha ritenuto che questa lettura riduttiva non fosse in alcun modo ricavabile dal testo, che invece si riferisce alle droghe pesanti, e non alla sola cannabis. Un eventuale sì al referendum avrebbe depenalizzato la coltivazione di tutte le piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, sia pesanti che leggere, in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con le Convenzioni di Vienna e di New York e con la Decisione quadro sottoscritta in sede Gai del 2004.

Ma non basta. Perché comunque, anche se il referendum fosse stato accolto, nell’ordinamento sarebbero rimaste altre norme, non toccate dai quesiti, che sanzionano la coltivazione della cannabis, nonché di ogni altra pianta da cui si possono estrarre sostanze stupefacenti. Il riferimento è agli articoli 26 e 28 del Testo unico sulle droghe. In questo senso, la Corte definisce “fuorviante” il referendum perché prospetta una liberalizzazione che, in realtà, non ci sarebbe stata.

Perché no alla responsabilità civile dei giudici

Ed eccoci all’ultimo referendum “bocciato” dagli alti giudici. È il costituzionalista bolognese Augusto Barbera a firmare il no al quesito sulla responsabilità civile delle toghe. In questo caso la Corte boccia la tecnica “manipolativo” del referendum proposto dai Radicali e dalla Lega. Non certo una novità per gli italiani che già nel 1987, con l’80,21% avevano detto sì alla responsabilità “diretta” sempre proposta dai Radicali allora guidati da Marco Pannella.

Ma stavolta, per la Corte, il referendum non avrebbe cancellato qualcosa, ma avrebbe introdotto una disciplina giuridica sostanzialmente nuova, non voluta dal legislatore. I promotori proponevano di abrogare diverse disposizioni della legge 117 del 1988, quella dell’allora Guardasigilli Giuliano Vassalli, seguita proprio al referendum dell’anno prima, e poi modificata dalla riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando nel 2015. Una legge che disciplina il regime della responsabilità civile dei magistrati per i danni da loro arrecati nell’esercizio delle funzioni. Con la legge Orlando l’azione risarcitoria viene rivolta allo Stato che, a sua volta, se il magistrato viene riconosciuto colpevole, può rivalersi in parte su di lui.

Il quesito però, con la tecnica del ritaglio abrogativo, secondo la Consulta, puntava a ottenere un’autonoma azione risarcitoria nei confronti del magistrato, per consentire al soggetto danneggiato di chiamarlo direttamente in giudizio.  La Corte lo ha bocciato proprio per il suo carattere “manipolativo e creativo”, che non è ammesso dalla costante giurisprudenza costituzionale. Attraverso l’abrogazione parziale delle norme in vigore, sarebbe stata introdotta una disciplina giuridica nuova, non voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione non consentita. 

Il quesito è stato dichiarato inammissibile anche perché non chiaro a sufficienza proprio sul punto della responsabilità diretta della toga. Sarebbero rimasti oscuri i termini e le condizioni di procedibilità. Oscuro sarebbe stato anche il rapporto tra la stessa azione diretta e quella verso lo Stato, che sarebbe rimasta comunque in vigore. Se il referendum fosse stato votato e avesse ottenuto il sì degli italiani, ne sarebbe sortita una legge che non delineava bene i tratti e le caratteristiche della nuova azione processuale contro le toghe.

 

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