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“Io spero solo di avere giustizia, che si chiarisca davvero cosa è stata Riace prima che la distruggessero”. Parla dal suo borgo Mimmo Lucano, l’ex sindaco di quello che un tempo era conosciuto come paese dell’accoglienza, per anni divenuto modello di integrazione nel mondo, ma finito al centro di un’inchiesta che lo ha letto come sede di un vero e proprio sistema criminale. “Non aveva senso essere in aula oggi, continua a sembrarmi tutto così assurdo” dice.
A Reggio Calabria, per Lucano e altri 22 imputati questa mattina inizia il processo d’appello, a otto mesi dalla condanna ricevuta in primo grado. Una sentenza che per la sua severità ha lasciato basiti i più, persino l’allora procuratore capo di Locri, Luigi D’Alessio e il pm Michele Permunian che in aula rappresentavano la pubblica accusa. Il Tribunale di Locri, ha infatti quasi raddoppiato le pene da loro invocate, condannando l’ex sindaco Lucano a 13 anni e 2 mesi. “Io sono esterrefatto per quello che è accaduto, esprimo solidarietà e vicinanza” aveva detto il segretario del Pd Enrico Letta, “Davvero siamo all’incredibile davvero viene da chiedersi se questo sia compiutamente un paese democratico” gli aveva fatto eco il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni. Una pioggia di solidarietà nei confronti dell’ex sindaco era arrivata anche dal mondo dell’arte, della cultura, dello spettacolo.
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Per il collegio presieduto da Fulvio Accurso però Lucano sarebbe stato “il dominus indiscusso” di un sistema che “ha strumentalizzato l’accoglienza a beneficio della sua immagine politica”, il vertice “di un’organizzazione tutt’altro che rudimentale”, il capo “di un sistema clientelare” e tutto nella sua vita e nella sua storia sarebbe stato un bluff. Nelle novecento pagine di motivazione, i giudici lasciano intendere persino che anche le condizioni non certo agiate di Lucano – che mai ha nascosto il rosso fisso dei suoi conti correnti, confermato anche dalla Finanza – sarebbero solo “condizione di mera apparenza” da non valorizzare perché “si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza”.
E poco importa, sostengono, che indagini approfondite dei finanzieri abbiano accertato che l’ex sindaco del borgo dell’accoglienza non si sia mai messo un euro in tasca, perché per loro “gli investimenti che Mimmo Lucano avrebbe fatto con i soldi avanzati dal progetto di accoglienza per i migranti costituivano, ad un tempo, una forma sicura di suo arricchimento personale, su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore”.
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Sulla base di cosa il Tribunale sia arrivato a tale convincimento nelle centinaia di pagine non si dice, né traspare. Una prova, un indizio, una conversazione che lo confermino, nemmeno. Ma i giudici ne sono convinti, così come si mostrano certi di quello che a loro dire sarebbe “fine ultimo” del sistema criminale costruito da Lucano. A loro dire, l’ex sindaco, che ha rifiutato più di una candidatura e a Riace non avrebbe potuto correre per un ulteriore mandato, avrebbe fatto tutto per assecondare le proprie mire politiche.
Per i legali di Lucano, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, che contro la sentenza hanno immediatamente presentato ricorso, si tratta di una ricostruzione della realtà “macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza”, ma soprattutto viziata da un approccio “aspro, polemico, al limite dell’insulto” e dalla preoccupazione di trovare Mimmo Lucano “colpevole ad ogni costo”.
In oltre 140 pagine di appello, i legali hanno smontato pezzo per pezzo le oltre 900 servite ai giudici per motivare la condanna. Dalle intercettazioni citate “in maniera macroscopicamente difforme” e per di più in barba ad una sentenza della Cassazione che le renderebbe inutilizzabili a quelle contestazioni di abuso d’ufficio trasformate dal Tribunale nell’assai più grave truffa aggravata, i legali hanno messo in fila – ed è fila lunga – tutti gli elementi della sentenza che a loro dire non quadrano. Ma soprattutto hanno puntato il dito sull’assoluta mancanza di prove a sostegno delle accuse. “Dov’è lo scambio politico? – si legge in un passaggio del ricorso – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento “omissivo” che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema di integrazione?”. E adesso la parola passa alla Corte d’appello.