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Renato Vallanzasca e il “fine pena mai”: per i giudici l’ex boss della Comasina “non si è mai ravveduto”

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Sarà pure “un uomo provato”, Renato Vallanzasca, e come potrebbe essere altrimenti per un detenuto “segnato ovviamente da circa cinquant’anni di carcere”, sia pure intervallati da un paio di clamorose evasioni. Glielo riconoscono, mettendolo per iscritto, gli stessi giudici del tribunale di Sorveglianza. E avrà anche tenuto una “condotta abbastanza corretta”, come certificato dalle relazioni interne al carcere di Bollate. Ma l’ex boss della Comasina, rapinatore e assassino alla fine degli anni Settanta, resta ormai condannato a pagare caro ogni minimo errore.

Come lo screzio avuto lo scorso agosto con un agente della polizia penitenziaria durante il controllo delle urine di rito, al ritorno da un permesso premio. Fu sanzionato con un richiamo e sarebbe dimostrazione di “carattere intemperante”, come scrivono i giudici. Che, per questo motivo, hanno respinto l’ennesima richiesta di liberazione condizionale o di libertà condizionata, ribadendo quanto già deciso dei loro colleghi dalla sera del 13 giugno 2014. Quella del suo ultimo arresto per rapina impropria all’Esselunga di viale Umbria. Bottino: boxer da uomo, cesoie, fertilizzante. Difesa: mi hanno incastrato. Condanna: dieci mesi, confermati in appello. Da cumulare con i quattro ergastoli.

Dunque, l’uomo che fu “il bel Renè”, che si contese con Francis Turatello lo scettro della Milano criminale, prima dell’ascesa di Angelo Epaminonda e dei catanesi, e che di recente è apparso sfiatato e vinto anche nelle fiction che ripercorrono quegli anni ruggenti, è rimasto per il giudici di sorveglianza quello di una volta: “non si è ravveduto e non ha risarcito le vittime”, non ha prodotto motivazioni soddisfacenti per provarne l’eventuale impossibilità materiale, non mostra sufficiente ravvedimento né “comportamenti positivi da cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali”. Certo, tutte le volte in cui ha avuto accesso a una comunità di recupero, quando ha messo piede fuori da Bollate, è stato ben accolto, tanto che gli ospiti “hanno finito per affezionarsi” al vecchio Renè. Ma quella stessa comunità – indicata dall’avvocato Paolo Muzzi, difensore di Vallanzasca, come possibile approdo fuori dal carcere – non ha indicato altro che “gruppi di orientamento riparativo” tra ex criminali come lui e vittime di reati.

Una destinazione che i giudici valutano come “assolutamente generica”, e comunque niente affatto “utile al reinserimento sociale”, al contrario di un’attività lavorativa vera, con uno stipendio e orari. Quella che l’ex boss aveva avuto dal 2010, seguita dalla semilibertà nel giugno del 2013, fino al suo ultimo arresto. A 72 anni, dei quali 48 (o 52, a seconda dei conteggi) trascorsi dentro, a 9 (o 5) dal triste record di Raffaele Cutolo, l’orizzonte per Renato Vallanzasca resta il “fine pena mai”. Aggravato dai primi segni di deterioramento della sua salute neurologica, come certificano le relazioni mediche dall’interno di Bollate. Lo riconosce anche la Sorveglianza, salvo aggiungere che “le condizioni di salute del detenuto non possono avere rilievo” sulla decisione finale. Che ricalca quella adottata il 23 giugno del 2020 e ribadita dalla Cassazione il 23 marzo dell’anno dopo. Tappe, grani di un rosario, date. Per la giustizia italiana, il calendario del vecchio boss non si è mai davvero mosso dal 6 febbraio 1977. Quando, a un posto di blocco a Dalmine, rimasero fulminati dai proettili di Vallanzasca i poliziotti della Stradale Renato Barborini e Luigi D’Andrea.

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