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Sentenza Willy, l’abbraccio in aula tra i due condannati, poi le urla e gli insulti

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FROSINONE – La donna che si occupa del bar del tribunale – un complesso monumentale bruciato dal sole inclemente di metà giornata – ascolta, senza commentarle, le lamentele di una funzionaria sulla carenza di alberi nel parcheggio. “Le macchine in questi giorni arrivano a cinquecento gradi, qualcuno mi ha detto che potrebbero anche esplodere”. I pochi cronisti rimasti cercano refrigerio in uno spicchio d’ombra. Un magistrato, passando, fa lo spiritoso: “Posso chiedervi un commento sulla sentenza?”. 

Ma in effetti c’è poco da commentare: dicono già tutto il breve applauso, un po’ in ritardo, e le lacrime, che non fanno rumore. Quelle dei familiari e degli amici di Willy – sempre così schivi, misuratissimi. Piange anche il sindaco di Paliano. E questo dice qualcosa. Ma dice qualcosa pure l’abbraccio tra i fratelli Bianchi – silenziosi, ancora per poco: più che solidale o affettuoso, “virile” in quel modo che un po’ ripugna. L’intesa irrevocabile fra complici. Torvi e ruminanti, prima della sentenza bofonchiano. Ma poi, a sentenza emessa, arrivano l’urlo e il furore: i due condannati all’ergastolo sbraitano, imprecano, inveiscono. Si tengono a fatica. E il contrasto è marcato fra il loro grido scomposto e il silenzio di chi non smette di soffrire; fra quella rabbia sempre fuori misura e il “nessuna emozione” pronunciato a mezza bocca da qualcuno nel gruppo dei familiari di Willy. Gli amici sorridono, balbettano la parola “sollievo”, che è una parola leggera. Poi piangono. 

Fuori dal tribunale c’è una luce eccessiva, un’afa palpabile che soffoca e altera le prospettive. E se lontano da qui l’hashtag #ergastolo inizia subito la sua corsa – i tweet di giubilo, per molti versi sgradevoli, non si contano, e spingono nei trend di Twitter i discorsi intorno alla sentenza – quello che trovo nei pressi è ancora silenzio. D’altra parte Paliano o Colleferro non sono hashtag ma comunità stanche e ammutolite, segnate da quasi due anni di attenzione sproporzionata, da una luce mediatica che, come quella di un luglio caldissimo, è impietosa. Non è vero, come leggo in un tweet, che il volto di Willy effigiato su un muro sorride di più. Quel sorriso appartiene a un ragazzo caduto fuori dal tempo – un ventenne per il quale ogni frase possibile comincia con “non”. Nel parco a lui intitolato a Paliano la lapide dice “esempio per le generazioni future”, ma non so, mi pare un prezzo incongruo e insensato per diventare “esempi”.

Cammino tra le altalene deserte, il bistrot è chiuso, qualcuno mi dice che forse – nel grande campo da basket panoramico – si ritroveranno più tardi alcuni suoi amici. Per una partita, per sfogare un po’ di tensione. Tra gli annunci funebri noto il manifesto del concerto in memoria, fissato qui per venerdì sera. Ma non mi piace l’espressione “giovane eroe dei nostri tempi”. È stupida. Ritrovo il sorriso di Willy nel grande murale realizzato da Ozmo nel largo Aldo Moro, appena un po’ scrostato – e addolora, ferisce, ogni volta che lo vedo apparire di colpo sulla facciata di un palazzo, in un sottopassaggio, nel piccolo e malinconico memoriale improvvisato a Colleferro nell’angolo di terra su cui è stato pestato. 

Quando mi avvicino al locale “Due di picche” – lì di fronte è partita la chiamata al 112 quella notte di settembre – una ragazza prepara i tavoli, un uomo giovane mi guarda con sospetto e mi domanda chi cerco. Nessuno, rispondo. Ma lui sembra aver capito. Al sindaco, al telefono, chiedo perché nessuno pare aver voglia di parlare. La sentenza – mi risponde – può essere commentata solo nel modo in cui lo hanno fatto i familiari di Willy: con quella sobrietà. Ma c’è da aspettare ancora. E le persone sono stanche dell’eccesso di informazione “che le ha esposte a lungo, brutalmente”. E ora?

L’inviata di un’emittente locale riprende la sua diretta dal giardinetto del pestaggio. Ma la violenza non è nei luoghi, il male non è nelle cose. Quando ho parlato, pochi giorni dopo la morte di Willy, con ragazze e ragazzi che lo conoscevano, si sono detti increduli e delusi. Increduli davanti a quella insensata, incomprensibile, ributtante ferocia. Delusi dalle etichette che sono piovute sul loro angolo di mondo. Poteva capitare ovunque. È stupido pensare che sia colpa di Colleferro o di Paliano. Ieri sera, in un messaggio alla sua insegnante, una di loro ha scritto: “Onestamente, prof, penso sia giusto che paghino. Non sono sembrati neanche un minimo pentiti. Ma aizzare l’odio contro di loro non ha senso. Voglio pensare che ci sia stata un po’ di giustizia per Willy”. Poi aggiunge, come correggendosi: sempre che, davanti a un destino come il suo, si possa usare la parola giustizia. 
 

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