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Un anno dopo resta il sorriso, quello di una delle ultime foto, diffusa solo dopo la morte. L’affetto, enorme, che è scaturito intorno ad Emergency, la sua ong, dopo la morte. E i progetti, tanti, compresi quelli nell’amato Afghanistan, da completare. Ed è tornata la voce, potente più che mai, di Gino Strada. Il chirurgo milanese moriva esattamente un anno fa, il 13 agosto 2021, in Normandia dove si trovava in vacanza con la moglie, Simonetta Gola. È stata lei, nei mesi scorsi, a riprendere in mano il suo testimone e a consegnarlo al mondo. Lo ha fatto sotto forma di un libro, Una persona alla volta, che Strada aveva quasi terminato al momento della morte, uscito in marzo da Feltrinelli e in edicola da sabato con Repubblica.
Gino Strada, il medico di pace. Il memoir del fondatore di Emergency
di
Ezio Mauro
Signora Strada, è passato un anno: che eredità ha lasciato Gino Strada?“Un’eredità pratica prima di tutto: una serie di progetti grandi, realizzati e da realizzare. Emergency sta facendo un grande sforzo per andare avanti senza di lui. Ma credo che l’eredità vera sia l’idea che il mondo si può cambiare, che vale la pena di continuare a crederci e a fare quello che è giusto, anche quando è difficile. Una persona alla volta, appunto”.
È il titolo del libro: lo avevate scelto insieme?“No. Il titolo doveva essere un altro, ma l’ho cambiato dopo la sua morte. Non volevo che questa suonasse come qualcosa che guarda indietro, perché non lo è. È un libro di lotta, in cui Gino mette insieme le due cose che aveva capito nella vita: che la guerra non si deve fare mai e che la salute è un diritto universale. Quel titolo l’abbiamo scelto una sera a cena, con gli amici e i colleghi di Emergency: è una frase della postfazione, ci sembrava che riflettesse al meglio quello che ha fatto Gino. Salvare il mondo una persona alla volta, appunto”.
Nelle prime pagine, il dottor Strada fa un riferimento a suo padre, morto quando era molto giovane. Sembra quasi un presentimento …“Gino diceva sempre che non sono gli anni a pesare, ma i chilometri. Ha avuto una vita intensa e non si è mai curato: quando ha iniziato a farlo la situazione era già complicata. Sapeva che c’era poco tempo ma questo gli ha dato la lucidità di scegliere le persone, le battaglie, i progetti”.
Il libro è arrivato nelle librerie quando era da poco cominciata la guerra in Ucraina. In edicola ora che il conflitto va verso a una lunga continuazione…“In momenti come questi c’è bisogno di ascoltare voci come quella di Gino. Aveva visto molte guerre: l’Iraq, la Cambogia, la Palestina, l’Eritrea, Gibuti, il Ruanda, l’Afghanistan naturalmente. All’inizio ragionava sulle motivazioni di ogni singolo conflitto, voleva capire. Poi è arrivato a credere che la guerra non ha mai senso. E questa riflessione vale anche per questo conflitto che lui non ha visto: nessuno dubita su chi sia l’aggressore e chi l’aggredito, ma Gino pensava che la guerra non ha senso in generale e soprattutto in un momento in cui sul tavolo ci sono strumenti di autodistruzione come quelli di cui dispone oggi l’umanità. Serve un modo di pensare diverso”.
Lei ha detto: “Non era un martire”. Può spiegarci?“Quando uno muore, c’è sempre il tentativo di cancellare i suoi difetti. O, come in questo caso, di farne un martire raccontando la sua eccezionale dedizione al lavoro. Gino era una persona con una forte tensione verso la giustizia: se doveva passare 14 ore in piedi in sala operatoria lo faceva, ma se non era necessario invece si metteva a giocare a bridge. Non si sacrificava per solo moralismo, gli piaceva vivere, aveva molto altro al di fuori di quello che era la persona pubblica. E anche perché coltivava il resto della sua vita era una persona realizzata”.
A lei come piace ricordarlo?“Ho molti ricordi ma continuo a pensare al nostro arrivo in Normandia per quell’ultima vacanza. Era molto felice, gli sembrava la realizzazione di un grande desiderio perché venivamo da un periodo intenso e difficile. Continuo a guardare la foto, quella che abbiamo diffuso dopo la sua morte: a lui piaceva molto perché in quello scatto riconosceva sé stesso in pieno. Aveva raggiunto la consapevolezza di chi era, di quello che aveva fatto, di ciò che voleva. Diceva che era in pace con sé stesso. Non è una cosa da tutti. Questo pensiero mi ha aiutato a convivere con la sua morte”.