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di Paola Rinaldi
“La persona che attira costantemente l’attenzione sulle sue disavventure e sofferenze rischia di provocarsi il complesso del martire e di dare agli altri l’impressione di cercare compassione”, ammoniva Martin Luther King. Non a caso, l’espressione “sindrome del martire” viene spesso usata per descrivere chi tende a sacrificare i propri desideri e bisogni per soddisfare i desideri e i bisogni altrui.
«Sono persone con la tendenza a dare aiuto più che a richiederlo, pensando che il loro valore derivi proprio dal farsi carico degli altri», spiega la dottoressa Paola Spera, psicologa psicoterapeuta a Verona. «In realtà, questo tipo di comportamento può nascondere molte radici diverse e dobbiamo chiederci: perché ci comportiamo in questo modo? Dove abbiamo imparato a comportarci così?».
Quali sono i segnali della sindrome del martire
Se l’espressione “sindrome del martire” rappresenta un modo di dire comune, ma non è una diagnosi ufficialmente riconosciuta, le persone che vengono etichettate in questo modo tendono a farsi carico dei problemi altrui, sacrificando i loro scopi di vita.
«Si sacrificano e soffrono per gli altri, spesso in modo esagerato e senza che questo sia realmente necessario», precisa la dottoressa Spera. Un esempio classico è quello della madre di famiglia che si lamenta di doversi sempre occupare di tutto, ma nello stesso tempo non delega assolutamente nulla, accentrando tutte le responsabilità della casa e della famiglia su di sé.
Quali sono le cause della sindrome del martire
Perché qualcuno decide di “portare una croce”? «Nella mia pratica clinica, vedo persone molto diverse adottare questo tipo di comportamento», riferisce l’esperta. «C’è chi lo fa perché crede che questo sia l’unico modo per ricevere amore e approvazione, c’è chi invece ha delle convinzioni molto rigide sul fatto che “la vita è fatta di sacrifici” o che “bisogna sacrificarsi per gli altri”. Tutto dipende dalla storia di vita, dai valori e dalla cultura in cui la persona è cresciuta ed è inserita».
Immaginiamo un ragazzo che, fin da bambino, si è dovuto occupare della madre perché il padre beveva ed era violento: «Questo ragazzo ha dovuto ben presto mettere i bisogni delle altre persone prima dei propri. Gli è stato necessario per sopravvivere e magari continuerà a farlo per tutta la vita, perché questo è ciò che ha imparato a fare», ammette la dottoressa Spera.
La sindrome del martire non è uno sfogo
Nella sindrome del martire, non è raro che le persone si lamentino della loro condizione, ma questo non va confuso con lo sfogo sano e costruttivo.
«Sfogarsi va bene quando rappresenta uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per stare meglio», specifica Spera. «Diventa un problema se invece è l’unico strumento, perché ci impedisce di ragionare su cosa possiamo fare per cambiare la situazione».
La lamentela ci fa concentrare su quello che non va, ma in questo modo non possiamo concentrarci sulle nostre risorse né su cosa possiamo fare per migliorare le cose.
A volte è manipolazione
C’è uno studio pubblicato nel 2014 su Personality and Individual Differences che ha rilevato come la manipolazione emotiva sia una tattica piuttosto comune tra i martiri, utilizzata per mantenere il controllo e la simpatia nelle relazioni.
«In un certo senso, le due cose si assomigliano: entrambi i comportamenti, seppure in modo diverso, hanno l’obiettivo di far fare qualcosa agli altri, senza assumersi la responsabilità del cambiamento», commenta la dottoressa Spera.
Sindrome del martire, quali soluzioni esistono
Assumersi la responsabilità del cambiamento è fondamentale. «Se stiamo vivendo una situazione che non ci va bene, per quanto possa sembrare complicato abbiamo sempre una possibilità di cambiare le cose», ricorda l’esperta.
«Perché mi sto comportando così? Questo comportamento mi serve per raggiungere i miei scopi di vita? Come si comporta la persona che vorrei essere? Queste sono le domande chiave per iniziare a uscire dai circoli viziosi in cui siamo incastrati».
Essere martiri non serve su questa terra. Il Paradiso può attendere.
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