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Stato d’emergenza, la fine dopo due anni: 160.000 morti e 15 milioni di contagiati. Ma ora l’Italia volta pagina

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Dopo due anni vissuti in emergenza, 160.000 morti e quasi 15 milioni di cittadini (uno su quattro) contagiati, l’Italia si riaffaccia (per decreto) alla normalità con un misto di speranza e timore. E un obiettivo sostanzialmente dichiarato: rassegnarsi e imparare a convivere con il Covid perchè il virus ( ce lo confermano i 100.000 nuovi casi quotidiani e i 1.000 morti dell’ultima settimana) è tutt’altro che sparito. E dovremo affrontarlo adesso senza regole o quasi.

Quando tutto è cominciato

Era il 31 gennaio del 2020 quando l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte (la cui voce per milioni di italiani, soprattutto i più giovani, rimarrà ineludibilmente legata agli annunci che hanno sconvolto la nostra vita negli ultimi due anni) annunciava la dichiarazione dello stato di emergenza per ” il rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”. Quella odiosa sigla, Covid-19, che tutto il mondo ha poi imparato a conoscerre, non esisteva ancora, il virus arrivato in Europa da Wuhan non si sa ancora come nè quando, era del tutto sconosciuto e senza nome. Il Paese in quarantena, milioni di cittadini chiusi in casa, i sanitari impaludati da testa a piedi in tute bianche, guanti, doppie mascherine, caschi protettivi, sembravano tratte da una serie Tv e soprattutto sembravano lontane, destinate ad interessare solo la Cina. Non sapevamo ancora che il Covid era già qui, in Europa, in Italia, da settimane, forse da mesi, giunto in aereo, ospite di uomini e donne spesso senza alcun sintomo. Non sapevamo e mai avremmo potuto immaginare che quel virus avrebbe sterminato un’intera generazione di anziani, che avrebbe ucciso anche giovani e sani, che avrebbe attaccato i polmoni, ben di più di una qualsiasi influenza.

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Viola Giannoli

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Il primo lockdown

Codogno e Vo, i luoghi simbolo insieme a Bergamo, della pandemia che ha travolto l’Italia più di altri Paesi europei per motivi mai chiariti, erano sconosciuti ai più. Poi mascherine, guanti, disinfettanti sono diventati i compagni delle nostre giornate, i presìdi a cui abbiamo affidato la nostra sicurezza in quella che è sembrata la lunghissima attesa dei vaccini, scandita da parole, immagini, appuntamenti quotidiani, da sigle e figure fino ad allora sconosciute. Il paese in lockdown, la vita regolata dalle decisioni del Comitato tecnico scientifico, virologi, epidemiologici, infettivologi diventati indispensabili per le decisioni politiche assunte al ritmo degli ormai famosi Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio con i quali prima Giuseppe Conte e poi Mario Draghi hanno, con un’infinita fisarmonica, dettato le strane e inedite regole di una convivenza a prova di contagio.

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Cenzio Di Zanni

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Mai l’Italia era rimasta chiusa in casa, affiacciata a balconi a cantare, suonare, pregare, rigraziare i medici e gli infermieri eroi, mai milioni di persone avevano lavorato a casa, bambini e ragazzi imparato a fare scuola nelle loro camerette, dietro allo schermo di un computer: smart working, Dad, termini ormai entrate nel vocabolario e nei comportamenti collettivi. E poi la paura, l’angoscia per i familiari, gli anziani, gli amici, portati via in ambulanza e morti senza poter rivedere i loro cari e per quelli rimasti a casa senza le cure. E poi lo sconvolgente convoglio dei camion militari con a bordo le salme dei morti di Bergamo.

La speranza dei vaccini

Fino ai vaccini, la speranza, la corsa all’immunizzazione tramutatasi dopo diversi mesi nel braccio di ferro, spesso irrazionale quanto violento, con i No Vax, l’introduzione del Green Pass (il lasciapassare per non richiudere più l’Italia, provare a salvare le attività economiche e combattere l’insorgenza di nuove varianti). E la più grande campagna vaccinale della storia d’Italia con le città disseminate di hub, l’incarico al generale Figliuolo di vaccinare l’Italia intera. Missione compiuta o quasi,  con più di 9 italiani su 10 adesso protetti dalla malattia grave, purtroppo non dal contagio.

Prove di convivenza con il virus

E ora? Un aprile di passaggio, una “prova generale”, con il ritorno alla normalità assoluta all’aperto, con la prospettiva di abbandonare ogni limitazione dal primo maggio. In un’Italia comunque diversa, che non abbandonderà lo smart working, che continuerà a vivere la sua socialità più all’aperto che al chiuso sperando che le strade e le piazze piene di tavolini di bar e ristoranti non si svuotino con il ritorno della tassa di concessione del suolo pubblico.La quarantena non bloccherà più a casa nessuno, tranne i positivi: i loro contatti (anche non vaccinati) potranno andare in giro con prudenza, autosorvegliandosi, mascherina Ffp2 sempre indossata per dieci giorni. E a scuola aule piene, in  Dad solo gli alunni positivi. Si tornerà a partire, a programmare una vacanza. Con vaccinati e non vaccinati che forse torneranno a riabbracciarsi, con le mascherine che (anche se non più d’ordinanza) rimarranno per molto tempo un accessorio irrinunciabile, un totem a cui affidare la nostra sicurezza anche quando non saranno più le regole ad imporcelo. Per dirla con le parole del professore Massimo Andreoni, primario di infettivologia a Tor Vergata, ” Dopo 2 anni di stato di emergenza per la pandemia, da domani si entra in una nuova stagione, ma dobbiamo essere consapevoli che questa svolta arriva in un momento critico con tanti nuovi casi e gli ultimissimi dati indicano anche, in controtendenza, un incremento dei ricoveri in area medica e in terapia intensiva. Quindi, siamo tutti contenti della fine dell’emergenza, ma dobbiamo sapere che, se ci dovesse essere una risalita in grado di mettere in difficoltà gli ospedali, avremo i mezzi per intervenire.Aprile sarà un mese chiave: se commettiamo errori, rischiamo di rovinare l’estate”.

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